Emanuele Fiano: IL PROFUMO DI MIO PADRE. L'EREDITA' DI UN FIGLIO DELLA SHOAH 

Ed. Piemme, gennaio 2021   € 17,50  e-book €9,90

Prefazione di Liliana Segre

 

Lo scorso 19 dicembre Nedo Fiano è morto, seguito, dopo nemmeno due mesi, dalla moglie Rina Lattes. Da qualche anno erano entrambi ospiti di una casa di riposo, a Milano, in condizioni di decrescente coscienza; quella condizione in cui il figlio, che in visita si ritrova a volte riconosciuto a volte no, trascorre il tempo teso a cogliere qualche attimo di grazia. Come quello che si verifica quando viene accolto con la frase: ‘Stavo parlando di te con Dio’.

Questa esperienza di relazione labile e umbratile, con lampi di luce radiosa, è il primo livello narrativo del recentissimo libro di Emanuele Fiano, ‘Il profumo di mio padre’, nel quale il racconto di una relazione che rimane fortissima e piena d’affetto mentre i ruoli si ribaltano, nella graduale assunzione  della funzione di accudimento da parte del figlio, si carica dello struggimento della separazione indotta dalla pandemia, in forza della quale l’autore ha perduto i genitori con un anno di anticipo. Un primo livello narrativo già di per sé importante, in questi tempi difficili in cui tanti si trovano a fronteggiare, insieme alla tristezza per lo spettacolo del declino e al dolore per la morte, un pesante sovrappiù di sofferenza, la forzata lontananza, il forzato abbandono. Con grande tenerezza Emanuele Fiano raccoglie tutti gli estremi fiori al limitare del gelo, comunica lo sconcerto di fronte al venir meno della mente ma anche la sorpresa, la dolorosa gioia, se si può dire, di una ricchezza che non smette di rivelarsi, che nella sua frammentazione imprevedibile non nega la persona e la vita, ma le compie.

La casa di riposo ebraica risuona di una babele di lingue, perché tante e diverse sono le lingue madri degli ospiti, risospinti verso l’infanzia dall’estrema vecchiezza. E’ qui, in questo groviglio sonoro, caotico, ma reso in qualche modo armonioso dall’atmosfera di pace e di cura, il punto di collegamento con l’altro tema, inevitabile, il lager: un’altra babele, ma quella irredimibilmente infernale. Tra le pagine del libro  gli anni terribili della persecuzione razziale, della cattura, dello sterminio della famiglia di Nedo Fiano, unico sopravvissuto, affiorano continuamente ma non in modo distesamente continuativo, il che non avrebbe nemmeno senso, visto che Nedo Fiano ha raccontato tutto questo da sé, nei libri e nelle tante testimonianze pubbliche. Invece, ed è questo lo specifico del racconto del figlio, gli orrori del passato riemergono carsicamente, affioramenti improvvisi e devastanti, antiche ferite di nuovo sanguinanti, così come si sono dati dentro la vita della nuova generazione, segnandola.

Non sono le memorie di Nedo Fiano, sono le memorie di Emanuele e, attraverso le sue, magari aprendo una strada, le memorie dei figli dei sopravvissuti; memorie attraverso le quali gli Italiani sono guidati a fare i conti con la propria smemoratezza.

Per lunghi decenni Nedo Fiano non ha parlato, nemmeno con i suoi figli. Ha inventato spiegazioni di fantasia per il numero sul braccio e per la gamba danneggiata. Non ha spiegato perché certe parole, certi gesti insignificanti (il pane posto in tavola in modo disordinato) gli scuotessero dentro ire furibonde. Né da dove venisse la fedeltà a una particolare marca di profumo, quel profumo evocato dal titolo del quale infine si scopre che rappresentava il primo segno di resurrezione, emanando dal soldato americano che l’aveva preso in braccio e salvato, ormai moribondo, il giorno della liberazione del lager.

Ormai è noto, dell’immane tragedia che ha scagliato l’Europa in un abisso in cui erano stati travolti ogni morale, ogni fede, ogni umanesimo, allo scoppio della pace nessuno voleva sentire parlare. Si era avverato il sogno profetico di Primo Levi, quell’ostinato voltar via la faccia di cui parlano le memorie di tanti e cui ha dato splendida veste letteraria Giorgio Bassani in una delle Storie ferraresi, Una lapide in via Mazzini.

I sopravvissuti tacquero a lungo, e non soltanto per lo scoraggiamento di cui parla Primo Levi. La volontà degli altri di coprire tutto di silenzio e d’oblio fu tanto imperativa, la protervia di chi non solo non si era opposto ma aveva cooperato alla strage tanto determinata nel non lasciarsi rovinare la vita dai testimoni, da accrescere e rinforzare nelle vittime un sentimento di vergogna;  una vergogna che già era il penoso lascito di un’esperienza inaudita di degradazione, e che avrebbe dovuto essere curata e risarcita. Così non fu. Gli Italiani che si erano voltati dall’altra parte ai tempi delle leggi razziali, accettando di rinnegare coloro che dalla notte dei tempi erano concittadini, vicini di casa, colleghi, amici, ora ritenevano di avere saldato i conti, in forza delle sofferenze che la guerra aveva elargito un po’ a tutti.

Nedo Fiano, come tanti altri, si è riconquistato con strenuo impegno di studio e lavoro lo status di cittadino, e cittadino meritorio della stagione della ricostruzione e del boom economico. Ma come potevano le ferite rimarginarsi davvero? Come poteva dimenticare il voltafaccia dei suoi concittadini fiorentini che avevano decretato la fine orribile di tutta la sua famiglia?

Questo nodo irrisolto, impietrato nel silenzio, non si scioglie nemmeno attraverso l’evidente riscatto sociale; lascia un’ombra, un’ambivalenza nelle relazioni, di cui il figlio Emanuele ha sofferto a sua volta, dapprima senza potersene dare ragione.

Solo nel 2000, con l’istituzione del Giorno della memoria, l’Italia risarcisce in modo ufficiale, pubblico e solenne, le vittime delle leggi razziali, aprendo la strada a una presa di coscienza delle specifiche responsabilità italiane che non era scontata e non è stata immediata. Le celebrazioni del Giorno della memoria hanno finalmente incoraggiato pubblicamente i sopravvissuti a parlare: ne hanno conferito loro il diritto, frustrato per decenni, accompagnando alla funzione risarcitoria, comunque assolutamente dovuta, il riconoscimento dell’altissimo valore civile della testimonianza.

Testimonianza, occorre sottolinearlo, di chi, perseguitato prima, zittito poi, non ha coltivato la pianta dell’odio, ma ha ricucito, spesso assai faticosamente, la propria vita nel segno della pacifica convivenza.

L’ombra, tuttavia, per troppo tempo è rimasta. L’esperienza dell’esclusione, del rinnegamento, della negazione si è stesa, lungo i decenni, oltre i protagonisti di quella tremenda stagione, toccando i discendenti. Dobbiamo essere grati a testimonianze come quella di Emanuele Fiano, quando ci racconta di come abbia superato il senso di separatezza, di sottile sfiducia ed esclusione rispetto agli altri Italiani attraverso l’impegno politico, che è stato per lui anche un cammino di riconciliazione.

Ma non è un cammino facile. Il male si lascia dietro una scia di dolore che attraversa le generazioni. E che nel libro è plasticamente rappresentata  nelle pagine in cui Fiano racconta di se stesso, addolorato e trepidante al cospetto delle testimonianze pubbliche del padre. Il quale aveva accettato di rompere il silenzio e di raccontare, ma non poteva farlo senza riaprire tutte le ferite, in un crescendo che lo portava ogni volta al pianto.


A cura di:

Giuliana Zanello è nata a Milano nel 1957. Si è laureata all’Università Cattolica del Sacro Cuore e insegna al liceo classico di Busto Arsizio. Collabora occasionalmente con IlSussidiario.net

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