Giuseppe Berto, IL MALE OSCURO, Neri Pozza, con la postfazione di Carlo Emilio Gadda

 

Un improvviso senso di calore che dalle vertebre lombari corre lungo la spina dorsale fino al cervelletto e poi, senza legami con la situazione contingente, senza cause apparenti, il terrore, la catastrofe universale, mente e corpo sconvolti, l’unità dell’io che periclita e la morte pronta a ghermire: oggi lo conosciamo bene, è l’attacco di panico, spesso evocato alla leggera anche per spiegare un momento di ansia acuta, ricordato invece con paura e disgusto da chi l’ha sperimentato davvero e ne conosce  e teme – per sempre, dopo la prima volta- la subdola imprevedibilità, la travolgente alluvione, il male di vivere e l’angoscia di morire ricapitolati e compressi in un acme rovinoso. Oggi lo conosciamo bene, lo curiamo anche abbastanza. Non così negli anni in cui lo sperimentò Giuseppe Berto, quando simili manifestazioni venivano ascritte a quello che si chiamava esaurimento nervoso e sedate approssimativamente con generici tranquillanti. Restava la speranza della psicoanalisi, e fu con quella che Berto ne uscì, avendo incontrato sulla sua travagliata strada Nicola Perotti, psicoanalista valente e umano, fondatore della società italiana di psicoanalisi. Della cura,  essendo il paziente scrittore, e scrittore bloccato dal male, o malato perché bloccato, fece parte il racconto delle sue vicissitudini.  Nasce così Il male oscuro, e le condizioni della sua generazione ci portano subito a Svevo, mentre il titolo , naturalmente,  denuncia la filiazione gaddiana.

 Era il male oscuro di cui la storia e le leggi e le universe discipline delle gran cattedre persistono a dover ignorare le cause, i modi; e lo si porta dentro di sé per tutto il fulgorato scoscendere d’una vita, più greve ogni giorno, immedicato. Così Gadda, nella Cognizione del dolore, nelle righe poste in esergo all’opera di Berto, da Gadda poi commentata al suo primo apparire. Travagliata, inevitabilmente, fu anche questa prima apparizione del libro, scritto forzandosi alla continuità nel 1961, nella solitudine di Capo Vaticano. Tornato a Roma con il suo prodotto, Berto comincia a cercare un editore ma solo dopo molti rifiuti, dopo avere quasi pensato di pubblicare a sue spese, ottiene infine l’assenso di Rizzoli. Il male oscuro esce nel 1964 , ha dieci ristampe in pochi mesi, vince Viareggio e Campiello. Berto ha ottenuto ‘un po’ di successo’, per dirla con le sue parole ma, incredibilmente, non la promozione del mondo letterario italiano, che questo successo liquida come frutto di scelte facilmente popolari.   

A questo punto occorre un po’ di storia. Giuseppe Berto nasce nel 1914 a Mogliano Veneto . Il padre, carabiniere in congedo e commerciante di scarse fortune, decide di far studiare il primogenito, unico maschio, con l’intento di farlo diventare ragioniere. Solo la necessità economica porterà il bambino agli studi ginnasiali, in forza del fatto che il collegio meno costoso che si riesce a trovare propone, appunto, il ginnasio, dove il piccolo Bepi si sforza strenuamente di eccellere, per ricompensare, almeno in parte, i tremendi sacrifici che la famiglia sta facendo per lui. Ebbene, se la letteratura vale qualcosa quando con pochi tratti ci mette sotto gli occhi un intero mondo, con il suo meraviglioso e disperante groviglio di riso e pianto, allora le pagine di questo romanzo sono letteratura che vale.  Si svolge davanti a noi tutta l’infelicità della piccola borghesia italiana, prigioniera di una parsimonia dettata dalla paura della caduta di status, sempre incombente ; da quella stessa parsimonia spinta a scelte e comportamenti che precludono il vantaggio economico , coltivando nel contempo fallimenti esistenziali; e poi, centrale nelle vicende del romanzo, una moralità severa, intrisa certamente di triste moralismo e di perbenismo, tuttavia non cinicamente liquidabile come priva di sincerità ; e in tutto questo, l’impossibilità di far coincidere Dio e mammona, la perpetua lacerazione del borghese che i confini ristretti della vita di provincia delle basse sfere sociali rendono ancora più acuta,  l’imperativo categorico di mantenersi onesti, la coscienza di apparire, a chi sta anche solo un pochino sopra, meschini…

Come non desiderare di uscire di un balzo dal pantano, di conquistare una grandezza che, sull’esempio di generazioni, si sa sostanzialmente negata per la via del duro lavoro quotidiano? Bepi adolescente non studia più, si arruola invece in tutte le guerre del ventennio fascista, conquistandosi l’onore militare. Ma il destino cinico e baro è lì ad attenderlo: erano guerre sbagliate, tanto sbagliate da renderlo impresentabile nella società letteraria dell’Italia repubblicana che, dopo il relativo successo delle prime prove, sostanzialmente lo archivia. E non rivedrà davvero mai il giudizio.

Eppure Il male oscuro appare nuovo e ardito anche oggi, dopo sessant’anni. E nuovo non di una novità ingenua e casuale ma di quella che nasce dall’assimilazione e dal ripensamento di importanti letture. Quattrocento pagine adi autobiografia (dei cui rischi l’autore ci avverte in una nota in apertura) che rampollano l’una dall’altra in una sorta di flusso di coscienza in cui l’interpunzione è quasi assente; un filo narrativo che parte dalla morte del padre per raccontarne i disastrosi strascichi, primo fra tutti la presa di coscienza della progressiva identificazione, che non ha nulla di volontario ma è anzi fatta del riconoscimento terrorizzato di segni ineluttabili.

Se confrontiamo l’opera di Berto con La coscienza di Zeno, il suo parente più prossimo, vediamo quanto più in là si sia spinta la mimesi del procedimento analitico. E ciò per ovvie ragioni, essendo quello di Svevo il racconto di una terapia fallita e di un paziente che non ne aveva bisogno, essendo la sua malattia una efficacissima strategia di vita. Nulla di strano, dunque, se Zeno  governa lucidamente in ogni momento il detto e il non detto, il lapsus e l’atto mancato, la verità e la menzogna; se Svevo si avvale ancora delle strutture del romanzo ottocentesco, torcendole fino a farle scricchiolare, denunciandone la morte imminente con il blocco della fluenza del linguaggio, ma lasciandole riconoscibili quel tanto che basta per affermare la vittoria sulle forze della distruzione.

Diversamente da Zeno, Il protagonista de ‘Il male oscuro’ è sincero, sincero nel modo che la psicoanalisi  ci ha insegnato, cioè quel tanto che, in ogni momento, ci concede la nostra comprensione sempre parzialissima di ciò che si muove dentro di noi, giù in fondo, dove l’anima e le viscere sono una cosa sola. Ciò giustifica il passaggio dalla sintassi regolare, seppure inceppata dalla coscienza della sua ingannevolezza,di Svevo , al fluire senza argini del dettato di Berto. Si è detto che siamo di fronte a una sorta di flusso di coscienza. Non è quello di Joyce, né quello di Virginia Wolf, soprattutto nel senso che scarsa parte vi ha la registrazione dell’aggrovigliata presenza, in mezzo a quelli che chiamiamo pensieri o ricordi,  dei mille fili delle percezioni del mondo esterno. Di che cosa si  tratta? Di una scelta più tradizionale, attardata financo, certamente meno respingente per il lettore medio? Può essere, ma è possibile anche un altro livello di lettura. Il fluire della parola – che è quello di un fiume, sì, ma di un fiume che si aggiri in infiniti meandri, che si muova stando fermo, che si esaurisca senza mai arrivare al mare – sempre ritornante sui ricordi, sui sintomi, sulle paure, mentre le sequenze narrative si insinuano come interruzioni, come mosche presto scacciate da una mano nervosa, è mimesi veritiera dell’attività mentale nevrotica, del rimuginio paralizzante, della vita consumata tra sensi di colpa, passato che non passa, ambizioni frustrate ma mai abbandonate , rancori, terrori. Un incessante moto immobile , prigioniero dello stesso cerchio di pensieri, come il pesce nella boccia. Con qualche momento di luce, quando la vita sembra riprendere un cammino rettilineo e sensato, il lavoro viene finito, il futuro sembra promettere anche qualcos’altro oltre a un cancro all’intestino… fino alla prossima volta, al prossimo improvviso calore alle vertebre lombari.  

No, non è possibile al protagonista de Il male oscuro il sorriso ironico e autoironico di Zeno. Quello è ancora il sorriso del dominatore che, scoperto in anticipo sulla massa il gioco delle falsità borghesi, libero da ogni credo, delle macerie di un mondo fa materiale da costruzione per la propria rivincita. E’ la sua ragione affilata , sola , a trionfare, anche dell’apocalisse che genialmente prefigura. Il personaggio di Berto non può. E’ il frutto dolente di una cultura che si è fatta amare per poi irriderlo, che ha scavato un baratro tra lui e le sue radici, tra lui e un padre che non può amare senza sentirsi ridicolo né odiare senza sentirsi colpevole, che lo ha consegnato alla morte, il cui ghigno non lascia in pace un attimo chi è incapace di distrarsi. Che ha scavato un baratro anche tra lui e Dio, nel senso almeno che ha troncato il sistema circolatorio della vicinanza, così come i millenni lo avevano costruito. Un Dio sempre invocato però, alla ricerca di perdono, non per gli immaginari delitti che nutrono i sensi di colpa, bensì, alla fine, perché è questo che fa la creatura, sempre sola al di fuori dell’abbraccio totale che il perdono rappresenta. Ma, dicevamo, come nutrirsi, davvero e fin dentro le fibre, oggi, di quell’abbraccio? Nell’infinita povertà della lontananza, si può solo chiedere pietà e appoggio per i nostri deboli tentativi di combattere la morte, come la gloria, per esempio. La gloria letteraria, per Giuseppe Berto, che sostituisce con questa matura e consapevole ambizione l’immagine falsa che aveva irretito la sua giovinezza.  E così può chiedere a Dio di aiutarlo, perché scrive per la gloria, e giusta è la sua ambizione perché a nient’altro mira che a sconfiggere, almeno per un po’ di tempo, il nulla.

 

A cura di:
Giuliana Zanello è nata a Milano nel 1957. Si è laureata all’Università Cattolica del Sacro Cuore e insegna al liceo classico di Busto Arsizio. Collabora occasionalmente con IlSussidiario.net

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