DOSTOEVSKIJ IN ITALIA

 

Gabriele d'Annunzio: GIOVANNI EPISCOPO, ed CentoAutori 2019,   pp 124,  € 9,50  - e-book € 0,99

Carlo Emilo Gadda: LA COGNIZIONE DEL DOLORE, ed Adelphi 2017, pp 381,  € 24,00

 

Nel secondo centenario della nascita, parliamo di Dostoevskij per una via mediata ma nello stesso tempo   letterariamente pertinente, anche se meno frequentata e all’apparenza dimessa: gettiamo uno sguardo sulla ricezione italiana del grande scrittore russo e su alcune sue apparizioni nella nostra letteratura. Bisogna ricordare preliminarmente che tale ricezione fu, com’è noto, tardiva e parziale: si lessero prima traduzioni francesi, per lo più pesantemente manipolate, poi, quando si prese a tradurre in italiano, lo si fece per molti anni ancora dal francese, aggiungendo manipolazione a manipolazione. Per quanto possa apparirci strano, i testi dell’autore pietroburghese venivano ordinariamente inseriti in collane di letteratura amena e adattati allo scopo tagliando, sunteggiando, perfino fondendo opere diverse.

Ma che cosa si leggeva di Dostoevskij negli ultimi anni del XIX secolo? Soprattutto Memorie da una casa di morti ( nella prima traduzione tassianamente intitolato Dal sepolcro de’ vivi), Delitto e castigo, Povera gente. Quanto ai romanzi maggiori, la prima traduzione de I fratelli Karamazov appare nel 1901, de L’idiota nel 1902, delle Memorie  dal sottosuolo nel 1919, de I demoni nel 1927. La scelta cade dunque, in un primo tempo, su testi che appaiono in qualche modo riconducibili all’ambito del realismo, e quindi riconoscibili e più facilmente assimilabili a esperienze note. Forse curioso ma significativo, ad esempio, il fatto che l’apprezzatissimo diario di prigionia richiamasse il confronto con Le mie prigioni di Silvio Pellico. Piacevano il realismo descrittivo e gli episodi di commovente solidarietà, ma soprattutto il carattere estremo ed esotico dell’ambientazione e della galleria di tipi criminali. Insieme agli aspetti riconducibili  ad esempi tipici del realismo romantico, che rendono l’opera riconoscibile e, per così dire, domestica, si sottolineano gli elementi legati all’esotico, all’incomprensibile, all’informe che, se da un lato ne fanno il documento di un mondo lontano,  indecifrabile e quasi mostruoso, dall’altro incontrano il gusto di fine secolo  nello slittamento del realismo romantico in direzione del fenomeno irrazionale ed abnorme; gusto ben documentato, ad esempio, nell’ambito della Scapigliatura. Più stretta la vicinanza con il clima positivistico, anche nelle sue declinazioni lombrosiane, colta in Delitto e castigo, nell’analisi delle cause del crimine esplorate nelle loro contiguità con la patologia, mentre restano in ombra il livello filosofico e quello morale. Denuncia sociale e solidarismo sono invece le chiavi di lettura applicate a Povera gente. Può sorprendere oggi la profondità della distanza culturale che impedisce per decenni di cogliere quasi tutto ciò che oggi importa dello scrittore russo, fino al punto che la stessa meritorietà dello scavo di Delitto e castigo è dichiarata solo in mezzo a molte avvertenze relative all’esagerazione, all’assurdità dei personaggi, all’ignoranza del bello stile. Occorre del resto ricordare che nell’Italia di fine secolo gli studi di slavistica sono del tutto assenti.

E’ questo il contesto nel quale matura l’accostamento a Dostoevskij da parte di Gabriele D’Annunzio che, nel 1891, già famoso e reduce dal successo de Il piacere, pubblica, su rivista e l’anno successivo in volume, Giovanni Episcopo, il breve romanzo di ispirazione dostoevskiana.

In una lunga e accorata confessione, un ubriacone incontrato in un’osteria romana racconta al suo interlocutore la sua triste vicenda: impiegato, oggetto di continuo dileggio da parte dei colleghi che approfittano crudelmente della sua incapacità di reagire, finisce succube del più prepotente di essi che ne fa in pratica il suo schiavo. A questo punto si inserisce l’incontro con una donna seducente e notoriamente facile, che il protagonista viene spinto, sempre per dileggio, a chiedere in moglie. La donna sta al gioco, per interesse e crudeltà. La vita cupissima di Giovanni viene illuminata solo dalla nascita di un figlio, di salute cagionevole e di animo sensibilissimo, di cui la madre si disinteressa totalmente. Quando il prepotente che l’ha reso schiavo si rifà vivo, dopo un periodo di guai con la giustizia, e prende a spadroneggiare in casa sua, con il pieno consenso della moglie che ne diviene l’amante, Giovanni si trova di nuovo preso tra l’avversione per i suoi persecutori e il disprezzo per se stesso, per la propria incredibile debolezza; con una complicazione in più: lo sguardo interrogativo del figlio, che sembra chiedergli conto della sua mancanza di reazione, della sua incapacità di difendere un minimo di giustizia. E’ così pronto lo scenario per la tragedia finale, quando il prepotente Wanzer, picchiata la donna e provocatane la partenza, aggredisce violentemente anche il ragazzo che aveva cercato di difenderla; è in quest’atto che Giovanni lo sorprende e infine lo accoltella a morte.   

D’Annunzio, dopo la prova di estetismo de Il piacere cerca nuove strade per il romanzo, e le cerca, occorre notare, sempre nel solco del realismo, di quel realismo evocato anche nella prefazione del romanzo del 1889, nella forma del determinismo psicologico. Proprio la psicologia gli appare come il mondo che si apre all’indagine della scrittura e l’abilità nello scavo psicologico è il tratto che individua come caratteristico e importante in Dostoevskij, accreditando invece a Tolstoj il grande affresco corale ed epico. L’interpretazione dello scrittore russo sulla cui base lavora il pescarese è dunque ancora tutta interna al realismo, cui concorre, nel russo, anche quella che D’Annunzio definisce ‘asciuttezza dello stile’. Si può ancora notare come l’interesse psicologico sia collegato anche qui a stati morbosi, al crimine, alla stranezza, al vizio, alla marginalità, all’esplorazione dell’irrazionale. Una declinazione del realismo in cui D’Annunzio si era già cimentato nei racconti di ambiente abruzzese e che rappresenta, come già si è cercato di dire, una via di uscita dalle secche del naturalismo- verismo comune a tanta letteratura dell’epoca, via d’uscita che , se da un lato appare come un approssimarsi alla vita vera, quella che brulica e soffre al di fuori della convenzionalità borghese e delle fanfare del trionfante progresso, dall’altro manifesta un bisogno di prossimità con l’irrazionale che la trasforma in via di fuga, riproponendo, ad un altro livello, lo sforzo di evasione dalla riduzione positivistica dell’umano già illustrata in Andrea Sperelli. 

Quanto ai modelli dostoevskiani, lo stesso autore fa riferimento a La mite, racconto di un vecchio usuraio che sposa una giovane dolce e remissiva e poi la tormenta crudelmente, spingendola di fatto al suicidio. Ma si ricorda anche il Marmeladov di Delitto e castigo, richiamato non solo nel protagonista ma anche nel suocero di questi, del pari debole ed alcoolizzato. Un altro episodio, sempre destinato a compiere il ritratto della degradazione di uomini succubi e miti, il furto di cui proprio il suocero, cui in casa si negano i soldi per bere, si rende colpevole nei confronti di Giovanni, ha un precedente nell’Idiota. E tuttavia, la distanza rispetto al modello è abissale, e riconducibile proprio alla parzialità della comprensione dello scrittore russo che D’Annunzio condivide con la cultura occidentale dei tempi suoi e che, nel suo caso, come ha ben rilevato Piero Gibellini, consiste soprattutto nella rimozione del livello morale: “il cimento con Delitto e castigo imponeva ciò cui D’Annunzio era sordo e negato: la problematica morale, che è cosa vicina ma non identica a quella psicologica… resta dunque il caso clinico di un ‘doloroso bevitore’” ( Piero Gibellini, prefazione a L’innocente, BUR). Giovanni Episcopo non si addentra nella disamina delle sue colpe, come l’usuraio de La mite, non è travolto dal conflitto tra una filosofia che dovrebbe porlo al di sopra della morale e l’evidenza devastante del rimorso, come Raskolnikov; si abbandona invece a un racconto fin impudico della propria debolezza di vittima, che rimane inspiegata e che è innocente proprio e solo in quanto debolezza.

Venendo alle scelte di stile, si è detto che D’Annunzio si propone a modello ‘l’asciuttezza’, improvvidamente ascritta a Dostoevskij : quella che al pescarese appare tale è, al di là della povertà indotta dalla non grande qualità delle traduzioni francesi di cui si avvale, l’assenza di un apparato retorico riconoscibile, in qualche modo riconducibile ai modi della elocutio classica; D’Annunzio sente il bisogno di una lingua più direttamente aderente al reale, eterno desiderio proibito della letteratissima elocutio degli scrittori italiani, e tanto più dopo la prova estrema di letterarietà fornita con Il piacere. Il tentativo tuttavia si risolve in un’opera di spoliazione che, se da un lato comporta la rinuncia al lessico lussureggiante del precedente romanzo, lascia come residuo un tessuto linguistico certo più povero ma in ogni caso convenzionale, così che l’intento di dire (da parte del protagonista) e di scrivere la verità abbisogna, oltre che di essere continuamente ribadito, di una serie nutrita di puntelli formali: interiezioni di lamento, punti esclamativi, puntini di sospensione, domande retoriche. Il risultato è complessivamente enfatico, mentre nel lungo monologo piangente le domande hanno la funzione di accentuare il carattere interrotto e come sopraffatto della narrazione, senza autentico valore interrogativo o dialogico: eruzioni emotive, non momenti dialettici. Proprio quest’ultimo aspetto denuncia nel modo più evidente la parzialità interpretativa cui si è fatto cenno e spiega anche perché, nel Giovanni Episcopo, la scelta della struttura monologica non sembri innalzarsi al di sopra dello statuto di soluzione conveniente, senza toccare un altro livello di necessità.  

Solo gradualmente e a fatica, in parallelo con la nascita degli studi di slavistica, la cultura italiana perviene a interpretazioni meno riduttive dello scrittore russo, seppure passando attraverso una lunga fase nella quale a prevalere sarà la proiezione sull’opera del dato biografico, del portato di una vita straordinariamente infelice. Del resto, lo stesso Michail Bachtin, nel suo saggio del 1929, doveva lamentare che dalla lettura delle opere di Dostoevskij, che pure si giovavano, a partire dal capitale saggio di Berdiaev del ’23, di importanti interpretazioni filosofiche, venute a integrare quelle inizialmente sociologiche o politiche, fossero ancora esclusi gli aspetti più propriamente letterari. In Italia un punto di svolta è rappresentato da un articolo uscito nel 1926 sulla rivista Solaria, dove si dichiara che “ Per noi insomma Dostoevskij è un grande scrittore”, in nome della sua arte sommamente drammatica e umana. Il cammino verso una piena acquisizione della straordinaria novità propriamente letteraria, di stile e costruzione narrativa, delle opere dello scrittore russo sarà ancora lungo, ove si tenga conto del fatto che, ad esempio, le considerazioni di Bachtin sulla ‘polifonia’ dostoevskiana rimarranno pressoché ignorate fino agli anni Sessanta. Brilla pertanto il caso di Carlo Emilio Gadda che già nel 1924 annotava sul suo diario l’intrapresa lettura di Dostoevskij, suggellandola con un ‘Bene!’. Dalle carte dello scrittore si evince, oltre alla conoscenza delle opere dostoevskiane di precoce diffusione, la frequentazione dei romanzi maggiori, anche de I demoni, così tardi pubblicato in Italia. Ma, senza addentrarci oltre nel resoconto filologico delle tante presenze dostoevskiane trasversali a tutta l’opera di Gadda, ci soffermiamo in conclusione sull’opera che più continuativamente e strutturalmente si richiama allo scrittore russo; ci riferiamo alla Cognizione del dolore, i cui rapporti con I fratelli Karamazov sono stati accuratamente e ripetutamente studiati. Al di là delle precise rispondenze nella trama (un delitto in cui il colpevole potrebbe essere un familiare), a importare soprattutto è la corrispondenza della struttura, nella quale si può dire che Gadda abbia assimilato e rielaborato la polifonia, intesa dallo scrittore lombardo come l’affollarsi delle concause, che necessariamente fanno esplodere l’intreccio in quelli che Contini chiamò ‘grumi romanzeschi’. Certo, come è stato notato, i Karamazov sono quattro, don Gonzalo è uno, il che porterebbe a dire che Gonzalo non è un Karamazov; ma, rovesciando l’asserto, si può dire che Gonzalo non è un Karamazov perché è tutti e quattro insieme, così che la polifonia non si dà tra personaggi diversi ma nelle voci che danno conto di uno stesso personaggio, multiforme e contraddittorio, e tra le schegge del proprio animo e del proprio vissuto, così come don Gonzalo le rimugina e le rivive, e le esterna in incomprensibili, umorali comportamenti, senza mai poterle ricomporre. Insieme, lo scandaglio delle circostanze, delle cause e delle concause, porta alla luce un altro tipo di polifonia, quello che Gadda definisce ‘il gravame delle colpe comuni’; e così si giunge al nocciolo, al fine cui sono funzionali la polifonia, l’esplosione dell’intreccio e quella del linguaggio: la caccia al punto in cui si palesa la colpa, al di là di tutte le cause e le concause, al di là del gravame delle colpe comuni per cui nessuno ha il diritto di tirarsi fuori ma per cui anche siamo tutti da compatire. E con la colpa, il palesarsi della scelta, della responsabilità, del problema morale. La struttura polifonica, insomma, consente allo scrittore di inseguire i mille rigagnoli in cui fluisce e rifluisce, tra i tanti noi stessi e gli altri, il nostro agire, alla ricerca del punto in cui finisce la psicologia e si entra nel territorio dell’etica. Con questo, la lettura di Dostoevskij è guadagnata alla sua intera statura e insieme saldata con l’istanza manzoniana. Ma quale è la conclusione di Gadda? Essa, com’è noto, semplicemente non c’è, né nella Cognizione, né nell’altro grande romanzo, Quer pasticciaccio brutto de via Merulana. E questo meriterebbe un’analisi a parte.

 


A cura di:

Giuliana Zanello è nata a Milano nel 1957. Si è laureata all’Università Cattolica del Sacro Cuore e ha insegnato al liceo classico di Busto Arsizio. Collabora occasionalmente con IlSussidiario.net

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