I giovani infelici

AUTORE: Pier Paolo Pasolini

EDIZIONI: Garzanti, 2015

TARGET: dai 16 anni

‘I giovani infelici’ è del 1975, come tutti gli altri scritti di Pasolini che nel ’76,  pochi mesi dopo la morte dell’autore, l’editore Einaudi pubblicò con il titolo complessivo di ‘Lettere luterane’.  E basterebbe questo incipit a farci riprendere in mano il volume, oggi che l’infelicità dei giovani stende la sua nube tenebrosa agli occhi di chiunque voglia guardare . Però occorre un atto di onestà iniziale, occorre cioè mettere a fuoco il fatto che i ‘giovani infelici’ di cui parla Pasolini siamo tutti noi, tutti gli adulti di oggi  a partire da coloro che erano giovani allora, nel ’75. De nobis fabula narratur. Noi, la generazione di quelli che, rifiutata la cultura tradizionale se di estrazione borghese, perduta la cultura popolare se popolani, nudi siamo scivolati nell’adesione acritica all’unico modello disponibile, quello del consumismo, generato dal nuovo modo di produzione (enorme quantità, beni superflui, funzione edonistica). Colpa dei padri, certamente, colpa dei padri: Pasolini apre il suo affresco con un riferimento alla tragedia greca, alle colpe dei padri che ricadono sui figli. Padri che, in questo caso, non hanno visto, neppure i migliori, non hanno percepito l’enormità del mutamento, né la sua sostanza tragica; che hanno continuato a baloccarsi con i giochi di potere, di quello che a loro sembrava ancora essere il potere ed era ormai nulla più che un teatro di marionette, lasciato in vita in quanto ininfluente dalle nuove, vere, forze in gioco. Ma colpa anche dei figli, di noi, dunque, giustamente puniti.

Il nuovo potere non parla con le parole, i suoi valori sono comunicati direttamente dalle cose, dalle immagini che accompagnano il nostro primo sguardo sul mondo: ‘La prima lezione me l’ha data una tenda’, recita il tiolo di uno degli scritti di ‘Gennariello’, la sezione ‘pedagogica’ del volume. Questi nuovi valori, riassume l’ultimo scritto, ‘Lettera luterana a Italo Calvino’, non ancora definiti e nominati, sono quelli di una nuova specie di borghesia. ‘I figli della borghesia sono dunque privilegiati nel realizzarli, e, realizzandoli (con incertezza e quindi con aggressività), si pongono come esempi a coloro che economicamente sono impotenti a farlo, e vengono ridotti appunto a larvali e feroci imitatori’. Di qui una gioventù priva di rispetto, di gioia, di bellezza. Anche di energia, spesso: sono troppi al suo interno ‘quelli che dovevano essere morti’, che sono vivi solo grazie alla medicina ma inesorabilmente segnati da un oscuro senso di colpa, oltre che da una carenza strutturale di forza vitale. ‘Quelli che dovevano essere morti’ è lo scritto più inquietante e paradossale del libro, quello in cui si annodano vitalismo e critica della modernità  e in cui emergono ambiguità e forse contraddizioni. Parole sferzanti fino alla crudeltà che, se non si possono condividere, ci scuotono però dal torpore : ‘Trovare qualcosa di artificiale o di contro natura in coloro che da bambini sono stati salvati dalla morte  dalla tecnica medica avrebbe avuto qualcosa di atroce e di reazionario in un mondo dove uno dei valori fondamentali fosse realmente  la conservazione della specie e dove tale conservazione si concretasse, appunto, in una prevalenza delle nascite sulle morti. Ma in un universo come il nostro, in cui tale valore fondamentale si va rovesciando … non hanno più senso le gratificazioni morali di un tempo… i figli che nascono oggi non  sono più aprioristicamente benedetti. Il giudizio tra benedizione e maledizione è sospeso. Sono però decisamente maledetti coloro che nascono in più.’

Nel libro sono raccolti anche  alcuni tra i più celebri scritti di Pasolini, quelli contro la televisione  e la scuola dell’obbligo, oltre alla discussa proposta di un ‘Processo’ da intentare contro i potenti democristiani. Ma rimaniamo ancora sui giovani, continuiamo la discesa agli inferi che, dalla nostra immagine riflessa in uno specchio impietoso, ci porta a posare uno sguardo addolorato sui nostri figli, come noi ‘giovani a cui non si può più parlare in nome di niente’.   E’ evidente a chiunque abbia un cuore che è in loro che noi siamo puniti. Per quale colpa? Per la colpa di essere infelici, risponde Pasolini. Ma possiamo forse arrischiare una maggiore articolazione della risposta. Era proprio inevitabile chiudere gli occhi? Era proprio inevitabile chiamare realismo il cinismo, adattarsi, cercare di salvare capra e cavoli? Perdersi in lotte ideologiche quando occorreva fare fronte comune contro il vuoto? Appagarsi della propria buona coscienza di bravi cattolici mentre le chiese si vuotavano? Lasciare che l’affermarsi ad ogni costo o almeno l’adattarsi senza troppo soffrire diventassero a poco a poco contenuto quasi esclusivo dell’educazione, eventualmente appoggiata dagli specialisti del benessere mentale? Le risposte non si trovano in questo libro che, sotto questo profilo, è disperato. Ma forse in un certo senso la speranza di cui abbiamo bisogno oggi è l’altra faccia della disperazione, o quantomeno può essere conquistata solo a patto di attraversarla. Solo a patto di soffrire. E questo libro fa soffrire.


A cura di: 

Giuliana Zanello è nata a Milano nel 1957. Si è laureata all’Università Cattolica del Sacro Cuore e insegna al liceo classico di Busto Arsizio. Collabora occasionalmente con IlSussidiario.net

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