Il quinto evangelio

AUTORE: Mario Pomilio

EDIZIONI: edizioni L’orma, 2015

Perché certi libri non entrano nel canone, anche quando alla loro prima uscita se ne riconosce ampiamente il valore? Domanda troppo impegnativa, cui occorrerebbero altro  spazio ed altre forze, e tuttavia inevitabile quando si parla de Il quinto evangelio di Mario Pomilio, pubblicato da Rusconi nel 1975, soprattutto se si pensa non solo alla fortuna smisurata – e al profluvio di commenti- toccata in sorte alla modestissima produzione di Dan Brown, ma anche alla persistenza  scolastica del Nome della rosa  di Umberto Eco, incomparabile per qualità con Dan Brown, certamente, e tuttavia, al di là dell’ostentata erudizione, tanto più artificiale e scontato di Pomilio.

Ma chiariamo le ragioni del paragone. Pomilio costruisce un’opera a cornice in cui un professore universitario di storia, ufficiale dell’esercito americano, durante la seconda guerra mondiale viene inviato a Colonia e qui, nella città distrutta, alloggiato in una canonica abbandonata. Vi trova le carte dell’ultimo parroco e, fra di esse, molto materiale relativo a un misterioso ‘quinto vangelo’ di cui, evidentemente, il prete aveva con passione seguito le tracce.  Il fascino strano della materia incatena progressivamente il professor Bergin, del resto miscredente, mentre l’atmosfera in cui la canonica abbandonata è immersa ha una suggestione particolare: è un rifugio, una pausa rispetto agli orrori della guerra, alla disumanizzazione scatenata, ma non è propriamente il luogo di una fuga dal mondo. Piuttosto, è il punto in cui recuperare le proprie vere dimensioni, in cui ritornare uomini; e in questo senso è un punto di partenza e di svolta. Bergin, infatti, non sarà più lo stesso, non tornerà alle cure di una tranquilla e dignitosa carriera accademica, ma si lancerà alla ricerca di quel testo misterioso, radunando intorno a sé un gruppo di studenti e spendendoci la vita. Dopo l’antefatto, il libro consiste nei materiali più significativi raccolti da Bergin e dai suoi allievi nella loro ricerca, in una vicenda di frustrazione e risorgente speranza: sufficiente frustrazione per lasciare tutto, sufficiente speranza per andare avanti, e una scelta che, alla fine, è motivata dall’occasione offerta da quella ricerca, l’occasione di vivere sempre in ricerca, appunto, e quindi sempre tesi a una verità che si lascia intravvedere ma non possedere. I materiali raccolti – lettere, frammenti, tradizioni popolari, verbali di processi dell’Inquisizione, spezzoni autobiografici di ecclesiastici e dotti- si dispongono a comporre una sorta di storia della Chiesa attraverso i secoli, dal 600 al 1700, dai monaci di Vivario ai movimenti ereticali del basso medioevo, ai giansenisti, alla Napoli settecentesca, in un succedersi di documenti svariati per epoca  e genere, plausibili nello stile e nella resa delle diverse sensibilità e dei diversi contesti culturali.

 Infatti i documenti sono tutti frutto di invenzione, come l’autore stesso dichiara, o di libera rielaborazione, ma perfettamente credibili, in forza della cultura rigorosa e del  dominio dei diversi registri espressivi ; compreso quello del filologo contemporaneo: perché il libro è anche un romanzo filologico, in cui le introduzioni di Bergin alle diverse parti danno conto ogni volta di complessi percorsi tra opere e autori, epoche e paesi, in un movimento che si ripete: lo spunto ancora grossolano viene sgrezzato, si raffina in fili di sottile acribia; poi la sottigliezza si rovescia in debolezza, in uno sfarinarsi e confondersi di ambigue tracce. Il filologo in cerca di fatti, mai disposto a rinunciare alle severe pretese del suo mestiere, si muove in realtà ogni volta per un atto di fede  in una parola, in una testimonianza di qualcuno che prima di lui si è lanciato nella stessa ricerca. Testimonianze, tutte, a loro volta, di fede e di scacco, mai totale però, se nel tortuoso cammino, in ogni caso, una qualche verità si fa più prossima. E non è mai il libro cercato, piuttosto la Persona che ne è il tema, che si chiarisce come il vero oggetto dell’inesausta ricerca, sempre presente ma mai afferrabile. Forse si può citare S.Paolo: ‘Mi protendo nella corsa per afferrarlo, io che sono già stato afferrato’.

 Pomilio ha voluto che il volume si chiudesse con l’atto teatrale Il quinto evangelista, che mette in scena una complessa rappresentazione della Passione nella Germania nazista del 1940: un confronto serrato tra le versioni dei quattro Vangeli canonici, in presenza di un misterioso quinto evangelista. Anche qui, il desiderio di un vangelo definitivo, privo di contraddizioni e zone d’ombra, viene  smascherato come aspirazione a rinchiudere la verità in una formula, per farsene padroni, con le orribili conseguenze che sappiamo. Invece,’ il Cristo non ci ha dettato una verità, ci ha lanciato in un’avventura’. Con queste parole il quinto evangelista sintetizza l’approdo ultimo della lunga queste: la radicale contestazione di ogni riduzione della verità e insieme la comprensione della funzione delle scritture, quella di introdurre in un rapporto da cui soltanto possono essere via via illuminate, sempre tra lampi e oscurità, in una tensione inesausta.

L’indagine tortuosa e infinita richiama il tema postmoderno del labirinto, centrale anche nel Nome della rosa, con esiti però opposti: se nel romanzo di Eco il carattere labirintico del sapere ne svuota la possibilità di presa su una realtà di fatto irriconducibile a un senso, sicché la fine dell’ideologia svela la natura della letteratura – se non della cultura tutta- come puro gioco, in Pomilio proprio l’inattingibilità del punto d’arrivo è garanzia del valore di ciò che si cerca, della sua eccedenza rispetto alle nostre misure, mentre la paziente e appassionata disamina delle tracce costituisce l’intelaiatura della vita e la moralità del lavoro culturale, pensato come ‘contatto con il grande’.

Ha probabilmente ragione chi accosta il capolavoro di Pomilio al Regno di Carrère, in forza della serietà intellettuale e dell’incessante interrogazione esistenziale, con una differenza. In un certo senso, il libro di Pomilio sta a quello del romanziere francese come la canonica di Colonia alla Germania distrutta dal nazismo: l’immersione nella pacata, mai fredda prosa argomentativa dell’autore del Quinto evangelio ci porta in un mondo nel quale, nonostante tutto, nessuno, neppure il non credente, nega la serietà della domanda religiosa in generale e di quella su Gesù in particolare, laddove Carrère ci mostra l’atmosfera culturale del nostro oggi, nel quale la fede, sentita come residuale, come relitto di uno stadio antropologico superato, deve, per interpellare le coscienze, superare un sostanziale discredito, scalfibile, alla fine, solo dalla testimonianza.

Il quinto evangelio è stato ripubblicato nel 2015 dalle edizioni L’orma, con un ampio saggio conclusivo di Gabriele Frasca e una nota archivistica di Wanda Santini.


A cura di: 

Giuliana Zanello è nata a Milano nel 1957. Si è laureata all’Università Cattolica del Sacro Cuore e insegna al liceo classico di Busto Arsizio. Collabora occasionalmente con IlSussidiario.net

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