Il Rap: musica, non musica, contraddizioni e comunicazione

 

Mi spiace partire con una negazione – i comunicatori professionisti dicono che non si fa mai – e allora ci giro intorno un po’ con qualche frase introduttiva, ma prima o poi dovrò arrivarci, a questa benedetta particella negativa. E allora via, avrei voluto cominciare così: non è assolutamente facile parlare del rap. Ricuperiamo un po’ di terreno innanzitutto con due evidenze innegabili: uno – è un genere musicale molto diffuso; due – è un genere musicale in continua evoluzione e quindi difficilmente racchiudibile in una definizione, men che meno in un’analisi. Mettiamocene una terza: con la velocità a cui marcia oggidì la comunicazione e la trasmissione di nuove uscite, è praticamente impossibile analizzare qualcosa che muta ogni mezza giornata (forse questa è un po’ esagerata, ma non so). Come sempre si fa, proviamo ad allontanarci un pochino per tentare di avere una visuale più estesa. Senza fare troppo gli specialisti, ma cercando di dare le dritte fondamentali.

È la fine degli anni ’70 quando nei quartieri degradati e ad alto tasso criminale di New York City (in particolare il Bronx) le gang che si fronteggiavano in maniera violenta cominciano a sostituire lo scontro fisico con quello verbale. È così che – per la verità riprendendo quello che un secolo prima veniva chiamato Talkin’ Blues – il rap emette il suo primo – per così dire - vagito. Per le strade si organizzano delle sorte di party dove i DJ propongono musica da ballo (principalmente Rhythm’n’blues, ma un po’ di tutto) creando un tappeto sonoro che farà da lì a breve da base per un verso ritmato da scandire sopra raccontando pezzi di storia di quartiere o insultando i membri della gang avversa, o a volte anche la polizia. Di questa prima fase possiamo tenere a mente i tre nomi principali, KOOL DJ HERC, disc-jockey proveniente dalla Giamaica, AFRIKA BAMBATAA, originario della tribù africana Zulu e GRANDMASTER FLASH, vero artista del piatto, dove per ‘piatto’ si intende il giradischi che diventa il vero e proprio strumento per miscelare la musica che si proponeva ed inventare lo scratch, sorta di “zi-ghi-zi-ghi” fatto mandando avanti e indietro il vinile sulla puntina e vero e proprio marchio di fabbrica dell’hip-hop, nome con il quale questo movimento musical-culturale si stava affermando.

Un bel libro del geniale scrittore David Foster Wallace racconta bene l’esplosione di questo genere pochi anni dopo a Boston, città dove il futuro affermato scrittore si era recato per il suo master in letteratura. In italiano il titolo recita Il Rap spiegato ai bianchi, testo ancora reperibile online e molto interessante per capire il fenomeno delle origini. Sì, perché non l’abbiamo ancora detto, ma i tre personaggi citati sopra e la stragrande maggioranza se non quasi totalità degli artisti rap, almeno alle origini, appartenevano alla popolazione afro-americana, che spesso nei testi dei rap affrontava anche il tema, mai sopito e sempre presente, della discriminazione razziale.

Ecco, queste le origini. Anche senza mettere link precisi (sarebbero troppi) si sappia che su YouTube sono reperibili numerosi video che raccontano la nascita di questo fenomeno, la diffusione in altre città, la funzione sociale che riveste, la trasgressione e poi l’omologazione in fenomeno di massa.

Nei primi anni ’80 il rap approda anche in Italia e va a sostituire, in quella specie di contro-cultura (ognuno valuti quanto contro e contro cosa) rappresentata dai centri sociali, quello che era stato il Punk dalla metà degli anni ’70. Da qui nasce una generazione di rapper italiani, che si associano a quelli che allora si chiamavano graffitari – termine ormai desueto e sostituito da writer – e ad una forma di danza detta allora breakdance ed eseguita per strada. Questo periodo è ben raccontato e descritto da un documentario dal titolo Numero Zero, anch’esso reperibile online in formato DVD, molto interessante perché animato dalle vive voci dei protagonisti di quel tempo, da Neffa a Fabri Fibra, da J-Ax a Ice One, per citarne solo alcuni.

Risulterebbe davvero impossibile un approfondimento ulteriore: mi limiterò ad aggiungere che per quanto riguarda l’Italia, dopo un momento di grande diffusione e l’approdo anche in tv (qualcuno si ricorda la trasmissione condotta da un giovanissimo Jovanotti, DeeJay Television?), il rap ha un momento piuttosto buio, da cui riemerge nei primi anni del nuovo millennio, riprendendo forza ed anzi diventando una delle forme di comunicazione musicale più diffuse fra i teenager, ed anche fra i ventenni e più. Avrete probabilmente notato che chi scrive è leggermente recalcitrante ad usare il termine canzone. Vero è che il rap da subito si è contaminato con il pop, passando dall’essere un puro verso scandito su una base musicale ad inserire parti cantate, specialmente ritornelli, a volte affidati a voci soliste, a volte interpretati dagli stessi rapper. Tuttavia se per ‘canzone’ si intende una composizione in cui in maniera variamente assortita appaiono un ritmo, una armonia (accordi), una melodia incollata alle parole e un arrangiamento, nel caso del rap una certa ripetitività è palese, la melodia (quando c’è) molto semplice, e la parte sicuramente preponderante è quella ritmico-testuale, sicuramente il motivo, peraltro, di una diffusione così massiccia fra i giovani. Comunicazione immediata, veloce, da imparare a memoria per immedesimarcisi, storie e gergo del presente che coinvolgono immediatamente. Mettiamoci anche la possibilità ormai alla portata di tutti di realizzarsi delle semplici basi in casa e la diffusione massiccia attraverso YouTube e i social e una ridda sterminata di rap si sparge ogni giorno (con alterno valore ed alterne fortune) nella grande prateria della rete.

Prima di tentare di issare la rete (che bel gioco di parole…), un piccolo accenno alla vera e propria regina di questo genere, la parola, per l’appunto. Se possiamo in parte sottoscrivere (non in tutti i casi) una certa pochezza musicale, una certa ripetitività, una scarsa presenza della melodia e in generale di musica, occorre anche ammettere che certi rapper sono veri e propri funamboli della parola, laddove non indulgano a troppi number (cioè giochi di parole, calembour), ma tentino di alzare un po’ il tiro cercando di usare questa forma sicuramente efficace per creare nuove forme di poesia. Ultimo spunto: si parla tanto di trap, sottogenere del rap, tendente ad una comunicazione thrash, linguaggio becero, incitazione a feste e stupefacenti, visto dai più come un genere deteriore. A questo proposito credo che la più bella fotografia sia la canzone di Daniele Silvestri Blitz gerontoiatrico, sagace e pungente attacco perpetrato appoggiandosi sulla stessa forma e quindi davvero centrato https://youtu.be/7bhyznZJP8M.

Impossibile ed inutile fare nomi, arrischiare giudizi, se non ascoltando a fondo e provando ad andare dentro qualcuno dei pezzi che i ragazzi ascoltano. Magari farlo insieme, tentando di non turarsi il naso e di non invocare i bei tempi andati ad ogni piè sospinto. Poi giudicando, ma non senza aver ascoltato. Buon lavoro!

Walter Muto


 A cura di:

WALTER MUTO, laureato in Lettere e con i più vari studi musicali alle spalle, decide di dedicarsi prima con grande passione e poi come lavoro alla musica, in particolare a quella leggera. La sua occupazione è fare musica, parlarne e scriverne a 360 gradi.  Oltre ad aver scritto diversi libri e curare una rubrica per il mensile Tracce, collabora da 35 anni agli spettacoli musicali per ragazzi della Sala Fontana di Milano, produce spettacoli insieme a Carlo Pastori e negli ultimi anni si dedica a progetti musicali per il sociale,
con una attività al Carcere di San Vittore ed una in due residenze per disabili psichici. 
Più info su www.waltermuto.it  

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