La Realtà e l’Infinito

 

Nel capitolo decimo del suo libro Il Senso Religioso, don Giussani, l’autore, afferma che la realtà è il segno che ci viene dato per cogliere il mistero, l’infinito. Nei miei incontri con la letteratura di lingua inglese ho spesso trovato conferme di questa affermazione, e ne sottopongo qui due esempi, a me cari.

 

Roman Wall Blues

Over the heather the wet wind blows,
I've lice in my tunic and a cold in my nose.

The rain comes pattering out of the sky,
I'm a Wall soldier, I don't know why.

The mist creeps over the hard grey stone,
My girl's in Tungria; I sleep alone.

Aulus goes hanging around her place,
I don't like his manners, I don't like his face.

Piso's a Christian, he worships a fish;
There'd be no kissing if he had his wish.

She gave me a ring but I diced it away;
I want my girl and I want my pay.

When I'm a veteran with only one eye
I shall do nothing but look at the sky.

(traduzione):

Sopra l'erica soffia il vento umido
Ho  pidocchi nella tunica e un raffreddore nel naso
La pioggia scende picchiettando dal cielo
Sono un soldato del Vallo, non so perché.
La nebbia scivola sulla dura pietra grigia,
La mia ragazza è in Tungria; dormo da solo.
Aulo va in giro per casa sua,
Non mi piacciono i suoi modi, non mi piace la  sua faccia.
Piso è un cristiano, adora un pesce;
Non ci sarebbero baci se fosse per lui.
Lei mi ha dato un anello ma l'ho perso ai dadi,
Voglio la mia ragazza e voglio la mia paga.
Quando sarò un veterano, con soltanto un occhio,
Non farò altro che guardare il cielo.

   (W.H. Auden)

L’autore è noto per la sua attenzione alla condizione sociale e politica degli uomini. Anche qui il protagonista è un uomo sofferente, pieno di nostalgia e apparentemente senza ragioni per quello che sta facendo. Non sappiamo dove trovi origine questa poesia, se da una lettura, da una visita a un museo, oppure da una visita al Vallo di Adriano, in cima all’Inghilterra. Forse soltanto dalla vista di un soldato nell’autunno-inverno della Gran Bretagna. In poche righe veniamo a sapere molto di lui. Ha freddo, è in pessime condizioni di salute, gli manca l’affetto della compagna, perfino la presenza di qualche amico sembra appannarsi nella gelosia e nella incomprensione. Anche il titolo è suggestivo, è un blues, cioè un canto di  malinconia, che racconta di perdite, sconfitte, ma sempre invoca  una possibile speranza. C’è sempre una dolcezza nella malinconia del blues che tiene aperto uno spiraglio. Che qui è suggerito dai due versi finali, quasi il distico alla fine di un sonetto di stampo elisabettiano. Ci sarà finalmente un momento per guardare il cielo. Certo ci saranno ancora difficoltà, ferite, “con soltanto un occhio”, ma verrà il momento di fare quello che davvero mi interessa, “guardare il cielo”. Bellissima conclusione per affermare che non siamo definiti dalle nostre fatiche, dai nostri pidocchi, dalle nostre nostalgie, sogni, incertezze, ma quello che veramente ci definisce, quello a cui aspiriamo, è questo sguardo verso il cielo, pieno di attesa.

 

Poppies in October

Even the sun-clouds this morning cannot manage such skirts.
Nor the woman in the ambulance
Whose red heart blooms through her coat so astoundingly —

A gift, a love gift
Utterly unasked for
By a sky

Palely and flamily
Igniting its carbon monoxides, by eyes
Dulled to a halt under bowlers.

O my God, what am I
That these late mouths should cry open
In a forest of frost, in a dawn of cornflowers.

(traduzione):

Papaveri in ottobre

Nemmeno le nuvole arrossate dal sole stamattina possono competere con simili gonne
Né la donna nell’ambulanza
Il cui cuore rosso sboccia attraverso il vestito così inaspettatamente—
Un dono, un dono d’amore
Mai richiesto
sotto un cielo

dal pallore di fiamma
Che inietta il suo monossido di carbonio, sotto occhi
ottusi a un fermata sotto il  cappello.

Oh mio Dio , che sono io
Che queste tardive bocche debbano gridare aperte
In una foresta di gelo, in un’alba di fiordalisi.

(S. Plath)

Un colpo di vento spalanca la finestra e scompiglia i foglietti degli appunti sul tavolo. E’ così la poesia di Sylvia Plath, tutto va ricostruito dal lettore, immagini come appunti sparsi. In questo accenno di mattino gli occhi colgono la bellezza, furiosa quasi, di alcuni papaveri fuori stagione, in ottobre. Petali come gonne mosse dal vento. Subito il pensiero è di sorpresa, “un dono d’amore”. Qui il passaggio dalla realtà all’infinito mistero è immediato, non è una riflessione, immediato perché il dono rimanda subito a un donatore, pur ignoto. L’idea è ripresa qualche verso dopo, “Oh mio dio, che sono io”. Dunque la bellezza fa nascere o rinascere la domanda di senso, d’infinito, ma non cancella la ferita del vivere, la donna nell’ambulanza, il cielo corrotto dai fumi, l’ottusità di occhi che guardano in basso, quasi nascosti dal cappello. Perché questa realtà di bocche che gridano aperte, in “un’alba di fiordalisi”, è tuttavia, umana condizione, “in una foresta di gelo”. Questo gelo, se vogliamo, trova conferma nel fatto che i tre versi che compongono la domanda finale non si chiudono con un punto interrogativo. Ma anche una così gelida constatazione del carattere della vita può in qualche modo leggersi come disperata domanda di “alba di fiordalisi”.

 

Poesie di Auden e Plath sono facilmente reperibili nel web, con spesso commenti interessanti. Segnalo in particolare, per Plath, https://allpoetry.com/Poppies-In-October

 

 


A cura di:

Marco Grampa

Laurea in Lingue e Letterature moderne presso IULM di Milano. Insegnante al Liceo Classico Crespi di Busto Arsizio per 20 anni, per otto anni presso il Liceo Scientifico Tirinnanzi di Legnano, dove ha operato come senior manager per scambi culturali con istituti australiani, portoghesi e USA.
Traduttore di opere soprattutto di carattere letterario da paesi di lingua inglese, in particolare africani.
Autore di racconti e brevi saggi per riviste locali.

 

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