JOAQUIN SOROLLA, il pittore del “naturale”

 

A Palazzo Reale (Milano), fino al 26 giugno, un’inedita esposizione presenta, per la prima volta in Italia, la sorprendente produzione artistica del pittore spagnolo Joaquín Sorolla y Bastida (Valencia 1863-Cercedilla 1923). Pur essendo molto stimato in patria -e in molte nazioni europee, oltre che in America-, per aver contribuito a rinnovare il linguaggio artistico negli anni della Belle Époque, tra XIX e XX secolo, nel nostro paese è rimasto in ombra, benché vi abbia più volte soggiornato ed abbia esposto in diverse manifestazioni artistiche, in particolare alla Biennale di Venezia, già dal 1895.

La mostra monografica è un’occasione preziosa per confrontare temi e tecniche della pittura europea della seconda metà dell’Ottocento, soprattutto quella elaborata a Parigi, centro indiscusso della modernità artistica, con quella iberica di Sorolla. La sua è una “pittura di luce”, tanto da essere definito da Blasco Ibañez -uno dei maggiori scrittori del tempo, che strinse una sincera amicizia con l’artista- romanziere della luce”.

Potrebbe essere annoverato tra gli impressionisti, ma la sua carriera inizia quando ormai quella corrente va esaurendosi nel Neoimpressionismo o è sostituita dalla sensibilità simbolista. Eppure, Sorolla dipingerà sempre en plein air e affermerà: “Sarebbe impossibile per me dipingere lentamente all’aperto, anche se lo volessi. Non c’è niente di immobile in ciò che ci circonda (…) Ma anche se tutto ciò fosse pietrificato e fermo, sarebbe sufficiente che il sole si muovesse (…) per dare luce diversa alle cose. Quelle montagne da lontano non sono più quelle di un momento fa. Devi dipingere velocemente: quello che perdi non lo troverai più!” Anche la velocità esecutiva sembra affiancarsi a quella del gruppo francese, ma la sua fame di realtà ha un’altra origine e, soprattutto, esiti diversi.

Tutta la carriera di Sorolla si consuma nell’osservazione attenta e sentita della realtà intorno a lui, a partire da quella famigliare, la più vicina, per allargarsi a temi sociali che riempiranno alcune sue grandi tele giovanili, come Tratta delle bianche”, che presenta un vagone di terza classe -come non ricordare il più noto “Vagone di terza classe” di Daumier di qualche decennio prima!- in cui una procuratrice accompagna delle giovanissime prostitute da una casa all’altra; o come “Triste eredità”, l’ultimo quadro di “realismo sociale”, dove dei bambini con evidenti infermità vengono accompagnati a fare il bagno in mare da un religioso. Lo strano titolo fa riferimento ad un pregiudizio ancora radicato nella Spagna di fine secolo, che vedeva in quei bambini le vittime dei vizi degli adulti (sifilide, alcolismo, tubercolosi).

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Joaquín Sorolla, Tratta delle bianche, 1894, olio su tela, 166,5x195 cm., Madrid Museo Sorolla

 

triste

J. Sorolla, Triste eredità, 1899, olio su tela, 212x288 cm., Valencia, Collezione Fondazione Bancaja

 

Lo sguardo di Sorolla è lontano da quello falsificante dei contemporanei, tanto che racconta così l’incontro che lo spinse a dipingere l’opera: “Quel mattino stavo facendo alcuni schizzi dei pescatori quando vidi in lontananza vicino al mare un gruppo di bambini nudi, vicino ad un frate. Erano i bambini dell’Istituto San Juan di Dios di Valencia, ciechi, malati, disabili e lebbrosi. La visione di quei bambini mi colpì inesorabilmente. Andai subito a chiedere al direttore dell’Istituto il permesso per dipingere quella scena di vita”. L’opera vinse il Grand Prix all’Esposizione Universale di Parigi del 1900.

L’artista amava il suo “mestiere”, era nato per fare il pittore (dipinse più di 4200 quadri), per agguantare quanta più realtà poteva.
Nato a Valencia, dove a soli tre anni rimase orfano, insieme alla sorella, dei genitori, morti di colera, e dove visse con la famiglia della zia materna ed ebbe la sua prima formazione artistica alla Scuola di Belle arti, prima di spostarsi, nell’’81, a Madrid, nella città natale tornò spesso perché il mare esercitava su di lui un’attrazione particolare.
Già nel 1896 realizzò una grande tela, “Cucendo la vela”, in cui il mare s’intravvede solo in lontananza, ma che tratta del lavoro dei pescatori, in questo caso delle loro mogli che rammendano la vela stesa a terra, il cui bianco viene ravvivato da macchie di luce filtrate da un pergolato. Benché il lavoro venga svolto nella penombra di un patio, il fascino per la luce solare inizia a prendere forma e quella semplice stoffa bianca ci appare quasi come il lungo strascico di una sposa elegante.
Sorolla riesce a nobilitare tutto ciò che tocca, trasformando le semplici azioni quotidiane in eventi memorabili. Se ne accorsero anche gli organizzatori della VI Biennale di Venezia del 1905 che, dopo aver esposto l’opera, considerata uno dei grandi capolavori dell’artista, l’acquistarono ed oggi la possiamo ancora ammirare a Venezia.

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J. Sorolla Cucendo la vela, 1896, olio su tela, 222x300 cm., Galleria di Ca' Pesaro, Venezia

In questo dipinto è possibile misurare la distanza con la tecnica impressionista, che giunse a sfaldare completamente –nelle opere mature di Monet o di Pissarro- le forme, la struttura della natura e delle figure, mentre Sorolla rimase fedele al disegno e alla resa dei volumi, che appaiono sempre compatti, solidi, benchè intrisi di luce, come vediamo nella bellissima “Istantanea” realizzata durante una vacanza nell’elegante cittadina di Biarritz: la moglie Clotide viene sorpresa dallo sguardo del marito mentre, seduta sulla spiaggia con in mano la piccola Kodak con cui fissava tanti piccoli eventi famigliari, viene travolta da un colpo di vento. Il suo corpo, avvolto dalla stoffa bianca svolazzante, è chiaramente costruito, così come i piani di profondità, che arrivano a farci distinguere, in lontananza, anche la schiuma delle onde marine.

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J. Sorolla, Istantanea, Biarritz, 1906, olio su tela, 62x93,5 cm., Madrid, Museo Sorolla

Riusciamo ancora a vedere la forma del corpo immerso quasi completamente nell’acqua dei “Nuotatori” a Javea. Entrano di nuovo in scena i bambini o, probabilmente i figli, che l’artista amava guardare mentre giocavano nell’acqua o si stendevano sul bagnasciuga. Oltre che dei loro corpi, sentiamo la consistenza e la freschezza dell’acqua verde-azzurra.

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J. Sorolla, Nuotatori, Javea, 1905, olio su tela, 90x126 cm., Madrid, Museo Sorollla

 

Sorolla era un uomo veramente innamorato della realtà, o meglio, di quello che lui chiamava il naturale: “non riesco a liberarmi dall’eccitazione che mi procura il vedere un naturale così bello…” (Epistolario di Sorolla, lettera a Clotilde del 1916).

 A Londra, dove espose nel 1908, alle Grafton Galleries, non perse l’occasione per andare a studiare i marmi del Partenone e quei corpi avvolti dal “panneggio bagnato”, che rendevano vive e palpitanti le divinità greche e che lui era già in grado di rendere perfettamente in pittura.
In questa città incontrò un mecenate che divenne determinante per gli sviluppi futuri della sua carriera: Archer M. Huntington, fondatore dell’Hispanic Society of America di New York, che gli commissionò una grande esposizione da tenere in quella sede nel 1909: la mostra fu un trionfo e ad essa ne seguirono altre a Buffalo, Boston, Saint Louis e Chicago, che consacrarono la sua fama presso gli americani.

mostra

Mostra di Sorolla all'Hispanic Society of America, New York, 1909

 

Nel 1912 da Huntington venne una seconda impegnativa richiesta, quella di decorare le enormi pareti della Biblioteca della Società da lui fondata. Avrebbe dovuto rappresentare i tipi umani caratteristici delle diverse regioni spagnole: si trattava di un’impresa titanica, perché l’artista andò a studiare dal vero paesaggi e persone, restando occupato fino al 1919. Questa ricerca ed i continui viaggi lo tennero spesso lontano dagli affetti famigliari, ma cercò di tornare il più assiduamente possibile in patria, tanto più che era riuscito a comprare un terreno per costruire una casa con un giardino, a lungo desiderato.
Più che nei giardini de La Granja a Segovia o in quelli dell’Alhambra a Granada o nei Reales Alcasares di Siviglia, in quello della sua casa scoprì una nuova qualità della luce, filtrata dalle foglie degli alberi, e una tranquillità particolare nei riflessi dell’acqua, sicuramente meno agitata di quella del mare, della fontana. In un angolo del giardino, poco prima essere colpito da un ictus, che gli impedì di continuare a dipingere, collocò la sedia di vimini su cui spesso si era seduto a conversare: un’immagine che sembra un ultimo saluto dal luogo più amato, cuore della vita della famiglia.

giardino

J. Sorolla, Giardino di Casa Sorolla con sedia vuota, 1920, olio su tela, 104x87,5 cm., Madrid, Museo Sorolla

 

Impossibile dare conto della quantità (sono solo 60, ma ognuna è un mondo da raccontare) e della qualità delle opere del grande pittore iberico, che finalmente abbiamo cominciato a conoscere attraverso i tanti temi da lui toccati e la strabiliante tecnica pittorica. Basti, per concludere, il racconto di un fatto che fa comprendere la carica umana che ha avuto ed ha saputo trasmettere ai suoi allievi (aveva iniziato ad insegnare proprio all’inizio del 1920): il 26 ottobre i suoi allievi lo trasportarono su una poltrona presso la scuola di San Fernando, dove tenne la sua ultima lezione.

 

A cura di:

GIUSEPPINA BOLZONI, laureata nel 1985 presso l’Università del Sacro Cuore di Milano, dal 1986 insegna Storia dell’Arte al liceo artistico della Fondazione Sacro Cuore di Milano, ove ha contribuito all’elaborazione del progetto sperimentale su base quinquennale.

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