Mostra Carlo Carrà

dal 4.10.2018 al 3.02.2019

Palazzo Reale - Milano

Dopo la mostra storica del 1962 a Palazzo Reale, sotto la presidenza di Roberto Longhi, grande critico amico personale dell’artista, e dopo l’ultima rassegna sul pittore piemontese dell’’87, Milano ripropone una grande retrospettiva, fino al 3 febbraio, sempre a Palazzo Reale, con circa 130 opere, concesse da alcune delle più importanti collezioni del mondo, per ripercorrere tutte le tappe della lunga e complessa vicenda artistica ed umana di Carlo Carrà. Le 7 sezioni, presentano, passo dopo passo, i periodi della vita e i cambiamenti di stile del grande maestro: Tra Divisionismo e Futurismo, Primitivismo, Metafisica, Ritorno alla natura, Centralità della figura, Gli ultimi anni, Ritratti.

Cosa sia la pittura per Carrà, lo riassume con rara capacità di sintesi il figlio Massimo: “cogliere il rapporto complesso e sempre un po’ misterioso fra le cose nella loro realtà e l’intervento dell’artista che con un’operazione mentale è in grado di sottrarle alla contingenza, di purificarle e di conferire loro un valore assoluto.” La pittura, quindi, anche quando si occupa della realtà ordinaria, o dei “luoghi comuni” dell’arte, come disse Testori a proposito di Cézanne, che dipinse gli stessi temi di Carrà –nature morte, paesaggi, ritratti-, crea sempre qualcosa di nuovo, in grado di superare l’aneddoto rappresentativo.

Fin dalla sua giovinezza, dopo un duro e lungo tirocinio come decoratore, accompagna la sua ricerca alla riflessione teorica, così risultano fondamentali i contributi alla stesura dei manifesti della pittura futurista del 1910 e gli scritti su La Voce, dove troviamo i saggi Parlata su Giotto e Paolo Uccello costruttore del 1916, frutto del suo tentativo di scavare nel tempo storico dell’arte italiana, per trovare un possibile raccordo tra modernità e storia. «Dalle indagini da me perseguite mi formai allora il convincimento che il naturalismo aveva cancellato dalla pittura quell’atmosfera spirituale che si trova gagliardamente espressa in Giotto, Paolo Uccello, Piero, Masaccio, la bellezza delle cui opere non consiste tanto nei punti di rapporto col reale, quanto in quella forma tutta particolare all’indole lirica del trascendentalismo plastico».

In mostra, questa prima fase della sua carriera è documentata da quadri noti e meno noti, ma nei quali è evidente che il suo essere “di tendenza” ha sempre un’originalità particolare: Luci notturne e Ciò che mi ha detto il tram del 1911 si collocano tra Divisionismo e prime prove futuriste, il polimaterico Fanciullo prodigio del 1915 fino a I Romantici del 1916, segnale già di una svolta in atto verso la riconquista di una unità della forma, che inizialmente incontra le atmosfere metafisiche in La Musa metafisica o ne La camera incantata del 1917.

Dal 1919 collabora con la rivista "Valori Plastici" di Mario Broglio e affianca gli sviluppi del gruppo "Novecento", senza mai  aderirvi: significative, del periodo del “Realismo magico” sono Il pino sul mare (1921), L’attesa (1926), Estate (1930). Nei quadri con figure, spesso le forme sono monumentali, come nei Nuotatori del 1929-30 o nei disegni preparatori per gli affreschi per il Palazzo di Giustizia (conclusi nel ’38), ma non sono mai attori di scene narrative, bensì presenze immobili, meditative o dai gesti lenti, espressione di un modo di essere.

Negli ultimi decenni (dagli anni Trenta alla morte) continua a lavorare solo, trascorrendo lunghi periodi in Versilia, dove ha modo di osservare, annotare e tradurre in numerose variazioni le spiagge deserte o con barche e capanni isolati, marine con vele mosse dal vento, scorci della campagna o delle colline, anche in questo caso con rare presenze umane (Il veliero del 1927, Casa abbandonata del 1930, Il Cinqualino del 1939, Marina all’alba del 1964). Già nel ’26 scriveva, con lucida consapevolezza: “(…) sebbene la realizzazione mi fosse faticosa, fui presto persuaso di aver trovato gli incanti e le magie di un paesaggio che confaceva al mio intimo sentimento. In tal modo l’orgogliosa intelligenza non operava più sopravvalutandosi, ma si accordava al vivente esempio delle cose».

I numerosi riconoscimenti che ebbe in vita -una per tutti, la sala alla Biennale nel 1950- e le grandi mostre a lui dedicate, come quella in corso, delineano la figura di un uomo e di un artista che ha attraversato buona parte del XX secolo assecondando la sua curiosità, che lo ha spinto sempre verso nuove strade, fino a comprendere che la più ardua è quella che porta alla conoscenza di se: “la mia pittura non vuole essere né naturalista né solo mentale, pur affermando l’esistenza dei valori di realtà e di quelli che ci vengono dall’immaginazione: rispondendo così a esigenze plastiche umane e integrali. Se poi le mie parole a qualcuno sembrassero poco singolari, dirò che mai mi sono proposto di fare il singolare. Di gente singolare il mondo è pieno».


 A cura di:

GIUSEPPINA BOLZONI, laureata nel 1985 presso l’Università del Sacro Cuore di Milano, dal 1986 insegna Storia dell’Arte al liceo artistico della Fondazione Sacro Cuore di Milano, ove ha contribuito all’elaborazione del progetto sperimentale su base quinquennale.

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