Il cavaliere e la morte

AUTORE: Leonardo Sciascia

EDIZIONI Adelphi, I ed. 1988, edizione più recente 2014, ora anche in e-book

Lo scorso novembre cadevano i trent’anni dalla morte di Leonardo Sciascia. Che cosa si può fare di meglio, per ricordarlo, che rileggere l’opera (penultima, ma ultima pubblicata) in cui pare avere vergato il proprio testamento? Stiamo parlando di Il cavaliere e la morte, uscito nel 1988, pochi mesi prima che l’autore finisse i suoi giorni. Il titolo deriva dall’incisione di Durer Il cavaliere, la morte e il diavolo, molto amata dal protagonista, che l’ha acquistata e la tiene costantemente davanti agli occhi. L’incisione appariva anche in copertina nella prima edizione del libro, da Adelphi, e forse non è stata provvida la decisione della casa editrice di sostituirla con un’altra nelle edizioni recenti. Un cavaliere interamente coperto da ferrea corazza avanza intrepido sul suo destriero, in un paesaggio inquietante e desolato, tra teschi, alberi spogli, rupi inaccessibili e crollanti. In alto, lontanissimo, disteso su un pianoro aprico, si intravvede un castello, forse la sua meta (irraggiungibile?). A fianco del cavaliere, su un cavallo gramo e sfinito, la Morte, che lo osserva stancamente. Dietro, il Diavolo, un mostro così orribile da essere buffonesco. Il Diavolo, osserva il protagonista, il cui monologo interiore occupa gran parte dell’opera, è stanco anche lui, non ha più nulla da fare tra gli uomini, che sanno sbrigare benissimo da soli il suo lavoro. Una sosta anche un po’ prolungata sui particolari dell’incisione non è fuori luogo, vista l’importanza assegnatale dall’autore nell’economia dell’opera, nella quale il cavaliere (pur se è aperta la possibilità di altre interpretazioni) è immagine del protagonista, e dunque dell’autore di cui il misterioso Vice (poliziotto cui non viene assegnato altro nome) è incarnazione letteraria. Anche il Vice, come l’autore, è molto malato, entrambi sono sotto lo sguardo stanco e vigile della morte. Siamo autorizzati, in quanto lettori, ad aggiungere a quella di Durer un’altra suggestione visiva? Quella del bergmaniano Settimo Sigillo, ad esempio? Forse sì, visto che l’autore stesso lascia vagare il suo protagonista tra confronti artistici (il cavallo di Guernica) e folte citazioni letterarie. Anche questo contribuisce a rafforzare l’impressione di essere di fronte a un testamento, quasi che Sciascia avesse voluto raccogliere in questa penultima fatica una biblioteca ideale, un memento culturale da consegnare al lettore.  Ecco, a questo punto l’operazione potrebbe rischiare di cadere in una gonfiezza presuntuosa e patetica, ma non è così: tutto ha invece il sapore dell’addio, accorato e umile, ad una compagnia amata. Certi messaggi non possono essere troppo espliciti, in fondo sono diretti a chi un po’ ha già capito, o ha orecchie per intendere; basta un suggerimento sottile. Del resto l’autore ha preso le sue precauzioni, ponendo il libro, fin dall’inizio, sotto il segno del comico. Sotto il titolo campeggia infatti la definizione del genere, sotie: farsa buffonesca diffusasi nella Francia tardo-medievale, nella quale il registro comico costituiva lo strumento della satira, satira del potere, soprattutto. Da questo punto di vista, la definizione riguarderebbe in particolare la vicenda poliziesca che costituisce la trama del romanzo, l’indagine su un delitto eccellente, nell’ambito di un losco intreccio di affari e politica, tra depistaggi che ne attribuiscono la responsabilità a un misterioso – e mai prima rivelatosi- gruppo terroristico… i temi cari a tutta la narrativa sciasciana, insomma, così concentrata sul potere e sulla sua forza corruttrice, sulla sua volgarità, soprattutto, volgarità contagiosa che si spande nella società attraverso la sistematica selezione del peggiore, attraverso la compiacenza paurosa o interessata, attraverso il cinismo e l’ipocrisia.

Un mondo declinante e in buona parte distrutto che toglie a chi si è impegnato per migliorarlo qualunque illusione, lasciandolo solo con la morte, intento a un solitario in cui una carta non va mai a posto. La partita sarà perduta, sembra suggerire il sorriso stanco della Morte. Eppure non c’è disperazione, in questo apologo sull’inanità degli sforzi umani narrato in limine. Proprio alla fine, proprio quando la vita sembra riservare solo qualche grumo di dolorante nebbia, il cavaliere ha l’occasione di un’ultima battaglia, e la morte lo raggiungerà per un’altra via, restituendogli una dimensione in qualche modo eroica. Morte, dov’è il tuo pungolo, se l’uomo può vivere tenendoti al fianco e tuttavia non cessando di amare la vita, può camminare tra crolli e giardini desertificati tuttavia continuando a cercare la via per ricostruire, continuando ad amare ciò che è bello e vero?


A cura di: 

Giuliana Zanello è nata a Milano nel 1957. Si è laureata all’Università Cattolica del Sacro Cuore e insegna al liceo classico di Busto Arsizio. Collabora occasionalmente con IlSussidiario.net

CDOLogo DIESSEDove siamo