IL MARTIRE FASCISTA

AUTORE: Adriano Sofri

EDIZIONI Sellerio, €15,00

Gli Italiani sono razzisti? Le leggi famigerate del ’38 furono imposte ad un popolo avverso, silenzioso per paura ma in realtà disgustato e intento ad eluderle ovunque possibile? E oggi? E’ anche razzismo l’ostilità verso ‘certi’ stranieri, sono anche razzismo l’indifferenza e l’inerzia verso la schiavitù che serpeggia di bel nuovo in tante nostre campagne, o bastano a spiegarle motivazioni socio- economiche? Siamo immuni dall’orribile malattia, lo siamo sempre stati salvo un increscioso incidente? L’ultimo libro di Adriano Sofri, Il martire fascista, uscito lo scorso novembre da Sellerio, aiuta, tra le altre cose, a fare giustizia di questo luogo comune. Lo scenario di questa storia – perché di storia si tratta, nel senso di fatto realmente accaduto e ricostruito sui documenti- incredibilmente mai raccontata, è la parte occidentale dell’attuale Slovenia, ovvero una larga striscia di paesi slavi ad est di Gorizia, annessa all’Italia dai trattati successivi alla prima guerra mondiale. La guerra, motivata tra l’altro dall’irredentismo trentino, legittimata dal principio dell’autodeterminazione dei popoli e dunque dal diritto di quegli Italiani a vivere in Italia, finiva conculcando tale diritto nei riguardi di altre popolazioni di confine. E forse proprio la retorica nazionale spesa a fiumi per coprire l’insensatezza del massacro obbligava, a cose fatte, a cancellare in fretta la patente contraddizione, ad italianizzare il più presto e il più completamente possibile gli alloglotti. Nel 1927 l’Associazione Nazionale Insegnanti Fascisti e il Ministero della Pubblica Istruzione indicono la Leva magistrale, con la quale si esortano ‘ i migliori insegnanti fascisti’ d’Italia a trasferirsi nelle nuove province. La situazione slovena appare particolarmente preoccupante: gli insegnanti sono per lo più sloveni a loro volta e fanno uso, con i bambini, della lingua madre. Urge intervenire. Ed è così che maestri provenienti da altre regioni d’Italia, soprattutto dal Sud, assai spesso dalla Sicilia, arrivano a sostituire  i maestri locali, a loro volta trasferiti d’ufficio in sedi lontane. Soli, del tutto ignari della lingua (e quindi svantaggiati, perché gli sloveni generalmente un po’ di Italiano lo comprendono), dislocati in paeselli sperduti, quasi privi di relazioni, poveri in un contesto poverissimo, questi maestri hanno ricevuto il mandato di cancellare le tracce della cultura d’origine dei loro allievi per sostituirla con l’italianità e  i caratteri dell’uomo nuovo del fascismo. Il gregge è renitente, i metodi sono duri, il contesto (famiglie, paesani) è avverso, mentre prende vita un ancora larvale irredentismo sloveno. E’ in questo ambiente, in questo clima, che matura la tragedia di  Francesco Sottosanti, di Piazza Armerina, maestro elementare a Vipacco, ucciso a fucilate il 4 ottobre del 1930 mentre rincasa in bicicletta. “ Fascista ucciso nel goriziano in una vile imboscata” : così il Corriere del 6 ottobre. E’ lui, Francesco Sottosanti, il ‘martire fascista’. Della vicenda si appropria la propaganda e il delitto viene ascritto senz’altro all’irredentismo slavo, benché i punti oscuri siano più numerosi di quelli chiariti. Chiarirli là dove possibile, incrociando testimonianze orali più o meno attendibili, stampa italiana e slovena, rapporti di polizia, leggende popolari, è il compito che si è assunto Sofri in questo libro: un’indagine complessa su un caso che riserva  tra l’altro una conclusione inaspettata,nel corso della quale da ogni parte si aprono questioni spinose, panorami dolenti.

L’autore, triestino, ha trascorso nel goriziano una parte significativa della sua infanzia, e questa è una prima ragione dell’interesse per questa storia sepolta dal tempo; ma la seconda ragione è davvero sorprendente, uno di quei capricci del caso che è impossibile non promuovere alla dignità di destino. Dalle pieghe della tragedia dimenticata dell’oscuro maestro siciliano, infatti, emerge un contatto con un’altra tragedia , quell’eccidio di Piazza Fontana che ha segnato così profondamente la storia del nostro paese e la storia personale di Sofri. Tra le tante congetture che hanno accompagnato l’infinita indagine sull’attentato – siamo ancora nella fase delle accuse a Pietro Valpreda- salta fuori il nome di un ambiguo personaggio, tale Nino Sottosanti. Anche lui di Piazza Armerina. E il collegamento con il maestro ucciso non potrebbe essere più stretto, trattandosi del sesto e ultimo figlio di Francesco, nato dopo la morte del padre.

Sofri si muove tra drammi, violenze , infelicità, false glorie e dolori veri con grande delicatezza e sobrietà espressiva, cercando la chiarezza sempre, sfumando con misericordia i destini di uomini sbattuti dai marosi della storia, penosamente inadeguati, soprattutto quando pensano di trarne vantaggio, alla fine sempre traditi.

Ma al di là delle vicende individuali, per le quali si è grati a Sofri della pietas di cui il suo racconto dà prova   ( lo si confronti ad esempio con un’opera per certi versi affine di Andrea Camilleri, Privo di titolo), Il martire fascista ci mette sotto gli occhi  la documentazione inoppugnabile di un razzismo antislavo che lascia stupefatti. Si può addebitare in parte ad esagerazione, in parte alle frustrazioni di una vita gramissima l’inqualificabile pratica di sputare in bocca ai bambini che si lasciavano scappare una parola slovena. Ma che dire di certe pagine dei principali quotidiani nazionali o dei verbali di polizia? Un esempio preclaro dal Corriere dell’8 ottobre 1930: Sono due metodi, due popoli, due civiltà messi a fronte: di qua, la graduale e amorosa conquista degli animi; di là, l’attentato selvaggio, proditorio, il gesto di rivolta anarcoide tramato ed eseguito nell’ombra secondo il costume della gente barbara. Da un carteggio della polizia, febbraio 1931, dove si tratteggiano i caratteri dell’irredentismo slavo, contrapponendolo alla generosa fierezza di quello italiano dell’anteguerra: Chiuso, subdolo, segreto, taciturno, senza baldanza e senza fierezza, striscia nell’ombra… Insomma, l’antisemitismo, quando arrivò, poteva contare su un terreno concimato, su una terminologia adatta, adorna di una patina, tra inquietante e grottesca, di scientificità (alloglotti, popolazioni allogene…). Data per persa la partita con gli adulti si dedica ogni risorsa alla snazionalizzazione dei bambini, i soli ancora plasmabili alla superiore civiltà romana e italiana. E’ qui che entra in campo la scuola.

Propaganda, vaneggiamenti di politicanti che non toccarono i più? La lettura del libro di Sofri non ci permette di adagiarci in questa certezza, e in questo senso è attualissimo, chiamandoci a una revisione critica dei luoghi comuni che scambiamo per verità così come di linguaggi e di comportamenti che, anche quando non li facciamo nostri, non ci prendiamo però la briga di contrastare più di tanto. E poi la scuola. La scuola fascista voleva educare. L’educazione, i valori civili, diciamo così, il carattere  stavano a cuore più dell’istruzione in sé. E i metodi non erano sempre quelli sciagurati dei poveri maestri scaraventati al confine sloveno, senza che ciò mutasse la natura intrinsecamente totalitaria che è il destino inevitabile di questa istituzione, ogni volta che si avventura nei lubrichi sentieri della costruzione di un particolare profilo umano. Anche in questo si parla di noi.


A cura di: 

Giuliana Zanello è nata a Milano nel 1957. Si è laureata all’Università Cattolica del Sacro Cuore e insegna al liceo classico di Busto Arsizio. Collabora occasionalmente con IlSussidiario.net

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