LA NERA

Autore: Dino Buzzati

ed. Mondadori, Oscar Moderni Baobab, 2020  

€ 30,00

 

Nel 2020 è stato nuovamente pubblicato negli Oscar Moderni Baobab il volume La nera ( prima  edizione Ottobre 2002), ampia antologia degli articoli di cronaca scritti da Dino Buzzati per il Corriere d’Informazione e il Corriere della Sera tra il 1945 e la morte, avvenuta nel gennaio del ’72.

Il titolo, in verità, avrebbe potuto essere “ L’invenzione della nera”, visto che, come precisa il curatore Lorenzo Viganò nell’introduzione, essa tornò sulle pagine dei giornali nel dopoguerra, dopo una lunga sosta: Mussolini non amava che si desse troppo rilievo ai fattacci, preferiva che i quotidiani restituissero del paese un’immagine positiva , o quantomeno bonaria.  Un genere in qualche modo nuovo, dunque, al quale lo scrittore bellunese si appassiona, con una fedeltà destinata a durare tutta la vita.  Già scrittore affermato, Buzzati continuò fino alla fine a nutrire un sentimento di venerazione per la redazione del quotidiano di via Solferino, dove era entrato ventiduenne nel 1928 e in cui aveva maturato le atmosfere e il sentimento della vita de Il deserto dei Tartari. E fedelmente rimase legato al mestiere del cronista, alle quotidiane spedizioni nelle pieghe più dolorose e paurose della vita degli uomini.   

L’antologia si divide in due parti principali, Crimini e misteri e Incubi, la prima dedicata a fatti di cronaca nera in senso stretto, la seconda a tragedie a vario titolo collettive, dalla frana del Vajont a Piazza Fontana, dall’alluvione del Polesine alla tragedia della navetta spaziale sovietica Soyuz.  In ogni caso, che la tragedia sgorghi da casi privati di individui anonimi o che esploda come fatto pubblico per l’imponenza del bottino di morte, essa riguarda sempre la condizione umana in quanto tale, tutti e ciascuno, il cronista per primo.   

La portinaia affetta reticenza ma in realtà chiacchiera volentieri, finché non la richiama il marito, operaio sindacalista, ricordandole che il commissario le aveva intimato di non parlarne con nessuno; l’appartamento dove si è consumato l’orrendo omicidio di quattro persone, tra cui tre bambini, squaderna, insieme ai segni strazianti dell’incursione fulminea e tremenda del male che ha spezzato di schianto le vite – la lettera ai nonni cui manca solo la firma, i resti del pasto-  gli struggenti accessori con cui i poveri si sforzano di mettere insieme una specie di decoro - qualche specchio, miseri e pretenziosi soprammobili. E, ricorrente e terribile, un seggiolone.  Nel Palazzo di giustizia, nel generale opprimente squallore, perfino i muri sembrano avere assorbito e riflettere sui volti grigi dei presenti tutto il male del mondo, tutto il peggio dell’umanità. Il nonno e lo zio dei bambini uccisi avanzano spaesati, dignitosi ma schiacciati da un dolore troppo grande per essere anche solo concepito. E il più giovane, per aggiunta di strazio e quasi per beffa del destino, è torturato dalle scarpe acquistate in fretta per il lungo viaggio dalla Sicilia a Milano e che fanno male. Sono solo alcune pennellate tratte dal corposo insieme di articoli dedicati, tra il 1946 e il 1950, all’eccidio di via S. Gregorio e, come si vede, siamo già in presenza di un romanzo, di Simenon per esempio, dove la stoffa tragica della vita è impregnata di umidità e odori di cucina. Forse il caso che vide funesta protagonista Rina Fort è il più notevole, in questo senso, tra quanti ne ospita la silloge, ma non l’unico. La cronaca minuziosa e dal vivo è sempre impastata della polvere di strade, scale, abitazioni – indimenticabile, specie per chi avesse avuto la ventura di vederne realmente uno, la descrizione dell’abbaino in cui abitava Anna Maria Carlesimo, al tempo in cui queste stanzucce sui tetti non si chiamavano ancora mansarde, in una Milano in fondo ancora piccola, popolare in ogni suo punto, e nebbiosa. Peraltro non tutti i fatti narrati avvengono a Milano, non tutti sono di ambiente popolare. Il delitto di Pia Bellentani, ad esempio, che tanto rumore fece nel 1951, ha come scenario un albergo di Cernobbio e un milieu sociale che nell’immaginario collettivo riassume i tratti dell’alta società, tra aristocratici, industriali, sfilate di moda. Ma in questo immaginario facilone, anche di tanta stampa, Buzzati interviene a scavare, a ridimensionare: si scrosta la vernice luccicante ed emergono i casi umani, la follia, l’inconsistenza morale e culturale. Di alto rimane solo il conto in banca, per il resto le differenze di classe sfumano lasciando, nudo, il dolore. Si può dire che gli schemi sociologici, tanto cari a tanto giornalismo attuale, sempre teso a inquadrare il caso in una categoria nota o a creare l’ennesima, siano in Buzzati assenti, o presenti solo come punto di partenza, come velo da squarciare. Ovvero appaiono come sfondo, a volte del tutto ingannevole, a volte atto a ricavarne il massimo della pietà per le vittime, il massimo delle attenuanti per il colpevole; ma non sono mai la spiegazione, la quale viene ricondotta puntualmente su un altro terreno, quello del fondo misterioso dell’anima umana, là dove si agita la scelta tra il bene e il male. E tale fondo misterioso, oggetto privilegiato dell’indagine del cronista come della coloritura del suo stile, è anche, va da sé, il punto in cui il cronista si fa tutt’uno con lo scrittore, in cui la cronaca si fa letteratura. Il mistero si spalanca improvvisamente, abissale e terribile, nel mezzo della più quotidiana e rassicurante normalità, filtra e straripa da crepe insignificanti. Di uomini e donne banali, d’improvviso, si staglia sui muri solo l’oscurità dell’ombra, gigantesca e terrificante. La naturalezza del passaggio al mistero, al fantastico inteso come sguardo spinto fino al reale, trapassata l’illusoria apparenza di un fondale rassicurante, è documentata in modo affascinante dalla presenza, accanto agli articoli di cronaca, di alcuni racconti che dalla cronaca scaturiscono, travestendola, reinventandola, svelandone il fondo. Si veda lo straordinario viaggio nel tempo di Marylin Monroe, accompagnata da un guardiano dell’aldilà che vuole convincerla a non morire; oppure    Il delitto del cavaliere Imbriani, racconto che può ricordare Poe, in cui si trasfigura un omicidio realmente avvenuto nel 1951. Ma la stessa attitudine a trapassare, nel momento stesso in cui viene immortalato con nitidezza e pietà, il particolare contingente, il dettaglio di costume, il dato sociale, conduce anche, negli scritti raccolti nella seconda parte sotto il titolo complessivo di Incubi e relativi a tante, immani, tragedie collettive, a proporre sempre, come nocciolo della questione, il tema della onnipresenza della morte. Sempre col fiato della morte sul collo, è l’uomo. E tutto il resto che lo attira, lo incuriosisce, lo affatica, lo disgusta, lo innamora non è in fondo che momentanea distrazione, più o meno volontaria; è quella, invece, la questione, quello il cimento.  Leggiamo nell’introduzione di Lorenzo Viganò: “Mi sono chiesto spesso se l’ossessione di Buzzati per la morte, che per tutta la vita sentì vivergli accanto come una malattia, come una signora di cui non temette mai la presenza ma a cui, come scrisse Montanelli, visse sempre abbracciato, che chiamò, invocò, tentò, cercò, non abbia in qualche modo influito sulla sua passione per la nera.” La morte che per tutta la vita gli vive accanto: sotto l’ossimoro di questa morte vivente Viganò raccoglie la produzione letteraria maggiore di Buzzati, indicandola come  il grande tema del Deserto dei Tartari e di Un amore. Del resto, la sezione Incubi, per quanto più smilza di Crimini e misteri, consiste di una rassegna così fitta e spaventosa da indurre a riconsiderare meno oleograficamente quei decenni della storia d’Italia (per limitarci al nostro paese) che usiamo incoronare di prosperità e di pace: i quarantatré bambini di una colonia milanese annegati ad Albenga, la sciagura di Superga, l’alluvione del Polesine, Marcinelle, la frana del Vajont, Piazza Fontana, per limitarci agli esempi più noti. Ai due estremi, il male che l’uomo procura a se stesso, come nella strage della Banca dell’agricoltura, dove il vero colpevole è, nella lettura buzzatiana, il demonio dell’odio che tutti coltiviamo dentro di noi, e il disastro del Vajont, per il quale il giudizio è sintetizzato in un titolo: Natura crudele. (Anche i titoli, nell’antologia curata da Viganò, sono per la maggior parte di Buzzati stesso). Dove si vede che, dentro l’orrore minuscolo come dentro il tuono del disastro Buzzati va braccando, sempre, da un lato il singolo, cui spetta, in ogni caso, la responsabilità della scelta; dall’altro l’uomo universale, così inerme di fronte all’assalto portato dal cosmo.

Il volume è ricchissimo anche sul fronte iconografico: basterà ricordare rapidamente il repertorio fotografico su tanti dei fatti narrati, le prime pagine dei giornali, le illustrazioni di mano dello stesso Buzzati.

La lettura può privilegiare o incrociare percorsi e punti di vista molteplici. A fianco dell’approfondimento sullo scrittore e la sua officina, è possibile cercare nel ricco materiale offerto linee di storia dei giornali e del giornalismo o, più in generale, della storia della seconda metà del XX secolo, in Italia ma non solo. E’ possibile anche qualche incursione nella storia del costume e della mentalità. Perfino in uno scrittore così umanamente attento permangono strascichi che ci fanno sobbalzare, come i ‘tratti negroidi’ e il ’naso meticcio’ usati con connotazione negativa nella descrizione dei protagonisti del caso di Rina Fort, non per nulla immediatamente successivo alla fine della guerra. Ma non meno interessanti sono gli spunti operativi offerti dalla contiguità tra descrizione/narrazione del reale e sua trasfigurazione fantastica, tra cronaca e racconto, tra racconto e meditazione morale, che si prestano, anche in sede didattica, a fungere da punto di partenza per analoghi esercizi di riscrittura e riflessione.


A cura di:

Giuliana Zanello è nata a Milano nel 1957. Si è laureata all’Università Cattolica del Sacro Cuore e ha insegnato al liceo classico di Busto Arsizio. Collabora occasionalmente con IlSussidiario.net

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