LA MISURA DELLA GIUSTIZIA

W. Shakespeare: MISURA PER MISURA

 

Molti sono nelle opere di Shakespeare i riferimenti alla giustizia e alla sua amministrazione. Una delle opere più significative in questo senso è “Misura per Misura”, commedia che si fa risalire al 1604, quando fu presentata a corte. Si tratta di una commedia, quindi tema e personaggi sono trattati con brio e ironia. La stesura attuale è frutto di un accurato lavoro di ricostruzione filologica in quanto il testo originale non lo si conosce; alcuni ipotizzano una revisione scespiriana di un testo precedente, altri un testo scespiriano con aggiunte e sottrazioni postume. In ogni caso il testo riconosciuto oggi  presenta alcune disarmonie: non tutto appare di Shakespeare, ma la maggior parte dell’opera possiede qualità di freschezza, immediatezza e profondità che si possono sicuramente far risalire al cigno di Stratford.

L’argomento è noto ma lo si riassume qui brevemente per maggior convenienza. Il duca Vincentio è sovrano a Vienna e, per motivi non subito esplicitati dall’autore, decide di abbandonare per un tempo imprecisato il governo della città, lasciando ad alcuni dignitari, tra cui il principale è Angelo (un po’ di ironia anche nel nome), l’amministrazione della città e in particolare della giustizia. Angelo si dimostra estremamente zelante, e rispolvera una legge vecchia di molti anni che prevede la condanna a morte per chi si macchi di adulterio e fornicazione. Il primo a cadere vittima di questa durissima legge è Claudio, giovane gentiluomo che, promesso a Juliet, la mette incinta prima delle nozze. Va detto che i due si amano, si sono promessi, e solo un motivo legato alla dote di lei li costringe a ritardare il matrimonio.

Risaputa la cosa, Angelo si dimostra inflessibile, anche di fronte alla paradossalità della pena prevista per il “crimine”, e al fatto che per tanto tempo la legge sia stata lasciata in un polveroso cassetto. Claudio viene condotto in prigione in attesa dell’esecuzione della condanna. Qualcuno suggerisce a Isabella, giovane e avvenente sorella di Claudio, e che si appresta a entrare come novizia in un convento della città, di perorare la causa del fratello davanti ad Angelo stesso, facendo leva sui più umani sentimenti famigliari. Ottenuto il colloquio, Isabella si dimostra abile, ma inutilmente. Angelo è inflessibile, la legge va applicata e Claudio dovrà morire di lì a due giorni. Ma il pianto, la grazia e l’avvenenza della giovane Isabella sortiscono anche un altro effetto: preso da passione improvvisa Angelo promette la grazia per Claudio se Isabella stessa gli si concederà per una notte. Isabella fugge e trova conforto nel colloquio con un frate di grande fama, che scopriamo essere lo stesso duca Vincentio che, curioso di conoscere le vere condizioni del suo popolo, vestita la tonaca di frate, aveva soltanto finto la partenza da Vienna per potersi liberamente muovere nella città e conoscerla più da vicino. Possiamo immaginare lo sdegno del duca. Questi, senza rivelare a nessuno la sua vera identità, ordirà un inganno per smascherare Angelo, il giudice da due pesi e due misure, e salvare la vita di Claudio. Il duca consiglia a Isabella di fingere di accettare l’incontro notturno, tuttavia all’ultimo momento farà in modo che Angelo nel buio della camera non trovi Isabella bensì Mariana, una giovane che aveva promesso di sposare ma da cui si era poi ritratto quando questa si era per sventura ritrovata senza dote. Alla fine, in un ingresso trionfale nella città, il duca riprenderà pieno possesso delle sue funzioni e responsabilità, offrendo a Isabella di condividerle con lui diventando sua moglie.

Il primo elemento che colpisce alla lettura è, come altrove in Shakespeare, il ruolo del sovrano, in questo caso del duca Vincentio. Questi è garanzia della giustizia. La sua presenza è garanzia di giustizia. E il sovrano, pur imparziale, non è sopra, ma parte della realtà più ampia del suo popolo, con una funzione diversa da quella degli altri. Qui Shakespeare, come in altre opere, attribuisce al sovrano, al re in particolare, una funzione quasi sacrale nell’universo della società. Il re è garante e responsabile primo della pace sociale, della prosperità e della giustizia. Il quadro di riferimento scespiriano è ancora quello dell’ordine medievale, dove un mutamento ha ricaduta sull’intero sistema. Infatti, la vera mossa iniziale, quella che scatena gli eventi, è data dal fatto che il duca abbandoni la sua funzione. E’ un po’ quello che accade anche nel Re Lear, quando il vecchio re divide il regno tra le figlie, assegnando a loro il compito di reggerne le sorti ma mantenendo per sé gli onori legati alla regalità: sarà la rovina. Il duca non è accorto quando lascia la sua funzione, anche se lo fa per un motivo nobile, e ne vedrà subito le conseguenze. La sua assenza dalla città, o meglio dalla sua funzione di governo, coincide infatti con l’annebbiarsi della giustizia e con l’aumento della corruzione. E’ un momento altamente drammatico e teatralmente magistrale quello in cui, durante il suo reingresso trionfale nella città, il duca si vede venire incontro la giovane Isabella, ancora ignara che le cose stanno volgendo al meglio, che lo apostrofa con tre semplici ma efficacissime parole, “Duca, fammi giustizia”. L’esigenza di giustizia si situa qui a livello delle più intime domande di felicità, di significato. Occorre che queste esigenze siano protette, e lo saranno se il giudice è giusto, cioè con la garanzia personale del sovrano. C’è un’altra battuta molto significativa in questo senso e che vale la pena di ricordare. Un personaggio si rivolge a un altro dei dignitari a cui il duca aveva affidato l’ufficio della giustizia, un dignitario di altra levatura morale rispetto ad Angelo: “Dov’è il duca? E’ lui che dovrebbe ascoltarmi!” E il dignitario gli risponderà,

Il duca è qui”, a sottolineare che ogni giudizio avviene in nome di qualcosa di più grande.

Altro elemento importante nell’opera è ovviamente quello legato alla figura del giudice. L’atteggiamento di Angelo, rigido e inflessibile, viene messo in questione fin dall’inizio. E’ il duca stesso a dire di lui, “vedremo se il potere cambia i propositi, e che cosa si nasconde dietro l’apparenza”.

 

Lo zelo fuori misura di Angelo nell’applicare una vecchia legge viene più volte biasimato nel corso dell’opera: “Il paese è come un cavallo montato da chi governa, e se questi è fresco di nomina tanto più darà di sprone per far capire chi comanda”. Al contrario, il mandato del duca era stato quello di “applicare o mitigare le leggi come sembri meglio al vostro animo”. Cioè si prevedeva uno spazio per la moderazione nell’applicazione della legge, e per una sua revisione.

E veniamo al terzo elemento, il senso della legge. Angelo, siamo nel primo atto: “non dobbiamo fare della legge uno spauracchio per gli uccelli, e poi abbandonarla perché ci facciano l’abitudine fino a farla diventare il loro posatoio”. Questa è la ragione della durezza di Angelo. La constatazione che il popolo non ubbidisce alle leggi. A lui risponderà Isabella, dapprima pregandolo che la legge condanni  o prenda di mira, “il reato, non il fratello”. E più tardi, nel corso del medesimo colloquio, concluderà, “grande cosa avere la forza di un gigante, ma è tirannia usarla come un gigante”. Infine Isabella inviterà il giudice a sondare il proprio cuore per vedere se non “confessi una naturale fallibilità”, proprio come quella del fratello Claudio. La legge è dunque un gigante, ma non deve essere un tiranno. La sua formulazione e applicazione devono essere accompagnate da un sentimento di comprensione, di moderazione, per usare le parole dette dal duca all’inizio dell’opera. Senza di queste, o se viene usata come strumento per imporre ciecamente una moralità, diventa “onnifrenante, imbrigliante legge” o, addirittura “legge adirata”. Si noti questo aggettivo, che rimanda al gigante incollerito di prima. Diventa cioè qualcosa che viene avvertito come arbitrario e innaturale. Quando il duca si aggira per Vienna in abito da frate si rende ben conto della povertà morale del suo popolo, ma c’è una nota di mestizia e di sconcerto all’inizio della commedia, quando Angelo è investito della somma autorità e la dimenticata legge viene rispolverata. I vari personaggi sono consapevoli della loro debolezza e fallibilità, e capiscono che non ci sarà via di scampo per loro. Sono i primi a riconoscersi fallibili, diversamente dallo sconsiderato Angelo.  La sua parabola, da una rigidità e quasi spietatezza iniziali alla misera caduta nelle maglie della stessa legge da lui ritenuta sovrana e immutabile, avrà certamente divertito un pubblico elisabettiano dal temperamento irruente e sanguigno e, come sappiamo, non sempre rispettoso di regole e norme.

 


A cura di:

Marco Grampa

Laurea in Lingue e Letterature moderne presso IULM di Milano. Insegnante al Liceo Classico Crespi di Busto Arsizio per 20 anni, per otto anni presso il Liceo Scientifico Tirinnanzi di Legnano, dove ha operato come senior manager per scambi culturali con istituti australiani, portoghesi e USA.
Traduttore di opere soprattutto di carattere letterario da paesi di lingua inglese, in particolare africani.
Autore di racconti e brevi saggi per riviste locali.

 

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