Marcel Proust, Combray, in La strada di Swann, primo volume de Alla ricerca del tempo perduto.

 

Marcel Proust, Combray

in: La strada di Swann, primo volume de Alla ricerca del tempo perduto

 

ed. Einaudi, ET Classici,  2016, 

514 pp,  € 13,00   

Una sfida può andar bene, per cominciare l’anno scolastico. Abbiamo davanti molti mesi per ridurre le pretese, tagliare, semplificare, decidere che certe cose non ‘passano’ più. A ottobre si può ancora guardare in alto e lontano, scommettere che la voglia d’avventura risvegliata dalle vacanze possa prendere anche la via dell’escursione culturale, che ci sia ancora in giro il gusto della bellezza un po’ difficile e faticosa. Insomma, forse a ottobre si può osare Proust, onorando il centenario della morte col raccoglierne l’invito.

Soprattutto, sarebbe bello incontrarlo prima di inciamparvi dipanando la storia della letteratura, prima che la necessaria brevità dei riferimenti lo impietri in due formule e quattro dati di contesto; incontrarlo così, con tutti i suoi enigmi, come andando verso l’ignoto. Possiamo partire per Combray e lì fermarci, lasciando solo a chi lo voglia il proseguimento del viaggio.

Tutti, per molto tempo, ci siamo coricati presto, la sera. E nell’ombra della camera abbiamo ascoltato voci e rumori della vita che continuava, senza di noi; della vita dei genitori, in particolare, che potevano, senza difficoltà apparente, lasciarci e continuare ad essere, ad essere interi e per altri: non eravamo tutto, alla fine, per il nostro tutto! Ma noi, senza il nostro tutto, abbandonati così in un buio deserto o nell’ombra affollata di immagini paurose, eravamo a un passo dall’essere ghermiti dal nulla. La vita si era ritratta altrove. Avremmo mai potuto riafferrarla, rientrare nel suo flusso? Sentircene parte a pieno titolo?

Da ragazzi dimentichiamo. Ma il vuoto dell’assenza si è ormai rannicchiato nel profondo, molto più giù della memoria volontaria, insieme con il sospetto di essere esclusi, e dal suo irraggiungibile rifugio perpetuamente ci affama.

Da ragazzi non ci interessa ricordare. Ci interessa sbarazzarci del tutto della creatura inerme e addolorata che eravamo, ci interessa accumulare controprove, starci, finalmente, dentro la vita. Ma sopravvengono incrinature, magari piccole, e dentro si spalanca un abisso, un vuoto del tutto sproporzionato alla crepa. E non sappiamo che sia, da dove venga. O divoriamo la vita avidamente, ma siamo divorati dalla fame. E non sappiamo che sia, da dove venga.

Si può incominciare anche così a leggere Combray, la prima parte della Recherche, proponendo un viaggio che sottragga l’infanzia, l’esperienza dell’infanzia, alle brume dell’oblio come ai poveri, fallaci schemi della memoria volontaria, così di rado nostra, tanto più spesso memoria delle memorie altrui. Può essere una scoperta, l’occasione di allenarsi, con l’ausilio di un allenatore implacabile, a passare dalla reazione a ciò che ne determina i caratteri, dalla fame compulsiva e onnivora all’ intuizione almeno iniziale di un bisogno, dal vuoto inerte e assassino alla ricerca della pienezza.

Si può obiettare che un simile approccio, oltre ad essere evidentemente riduttivo rispetto alla ricchezza fin scoraggiante dell’opera proustiana, finisce per accarezzare quel soggettivismo individualistico che viene spesso annoverato tra i mali più gravi della nostra epoca e tra i nemici di una sana educazione. Solo che il viaggio nelle profondità dell’io, in Proust, non ha il soggettivismo come punto di partenza, né come punto d’arrivo. Come i critici più grandi hanno sempre rilevato, ambizione originaria e scopo dello scrittore è la Verità, in polemica con la sua dissoluzione estetizzante e individualistica, e quindi con ciò che definiamo decadentismo, ma anche con la grave riduzione positivistica per cui si azzera l’osservatore. Non ci è dato accostarci a ciò che è fuori di noi se non con noi stessi e, prima che con la ragione, con il corpo, con il lavorio dei sensi e dei nervi. Lavorio che costruisce un ponte ma insieme anche un diaframma, così che non si coglie verità di ciò che è fuori se non mettendo a tema, in primo luogo, il diaframma medesimo, ricostruendone contorni e genesi. Niente vaghezze artificiose, dunque, né compiacimenti o nostalgie dolciastre, bensì analisi strenua ed esatta. La quale, tuttavia, non può essere condotta che dal suo medesimo oggetto, il cui statuto, pertanto, è assai complesso e sempre in bilico sull’abisso del fallimento e della contraddizione.

 E’ questa, nel romanzo, l’inafferrabilità del Narratore, né piccolo Marcel né Proust, che tutta la critica rileva. La parte che spetta al soggetto, dunque, è di farsi, in primo luogo, oggetto a se stesso, di portare alla luce il suo modo peculiare di conoscere/ deformare gli altri oggetti. Percorso complicato ed estenuante, come si vede, sempre a rischio di dissolversi in un vano gioco di specchi, di cui è mimesi affascinante e impegnativa la sintassi, quella sintassi proustiana che avanza lenta e lussureggiante, dispiegando a ogni passo i suoi  meccanismi ritardanti; che costringe  a fermarsi, a tornare indietro, alla ricerca di una proposizione principale perduta nei meandri di notazioni  e precisazioni sboccianti le une dalle altre, di lunghissime parentesi, sull’onda di un lessico inesauribilmente ricco e prezioso perché si vuole ostinatamente esatto.  

Un viaggio alla ricerca della verità di sé, come preliminare necessario alla ricerca della Verità. Un viaggio sempre a rischio di naufragio, si è detto, che tuttavia ha dalla sua qualche garanzia di riuscita. Una prima garanzia, la più esteriore, se vogliamo, è offerta al lettore dalla efficacia realistica, tale da sollecitare nella critica il paragone con Balzac, o Zola, o Flaubert, della mole inesauribile di riferimenti alla storia e alla società disseminati nella Recherche (e basterebbe a questo proposito ricordare le pagine dedicate all’affaire Dreyfus o alla prima guerra mondiale, come l’analisi sottilissima delle classi sociali e dei loro rapporti, dei loro tipi , del loro linguaggio). Una seconda garanzia ci è offerta dal Narratore quando a più riprese osserva che quello che chiamiamo ‘io’ non è sempre lo stesso, sicché gli elementi unificanti per cui nelle varie fasi ci riconosciamo sono ben poco rispetto alle differenze che ci separano dai tanti nostri ‘io’ ormai estinti. E questo dovrebbe aiutare ad avere con essi, nel viaggio di ricostruzione della memoria, un rapporto oggettivante.

 Ma a contare di più è la terza garanzia, quella che ci viene incontro nelle pagine più proustiane di Proust, ed è la gioia che accompagna il riaffiorare della memoria profonda: un momento di rivelazione, di unità dell’io, che rende certi di essere in presenza della verità. Verità del soggetto, certo. Ma, a parte che, come si è cercato di dire, la Recherche ci consente di verificare a ogni pagina su quanto mondo si aprano gli occhi di questo soggetto ritrovato, la verità di sé è forse poca cosa? E’ poca cosa questa gioia che invade l’uomo quando si ritrova? E’ poca cosa la forza irraggiante con cui questa esperienza, seppure momentanea, illumina tanto mondo intorno a sé e tanto tempo dietro di sé? 

Questo per dire che, se è vero che invitare a leggere Proust significa invitare a occuparsi del soggetto, il soggetto che lo scrittore va cercando ha ben poco a che vedere con ciò cui rimanda oggi il termine ‘soggettivismo’. Nel rappresentare la condizione umana dell’europeo colto del primo novecento e documentandone il carattere per così dire post-kantiano, Proust ci testimonia la necessità della ricerca del vero sé, la durezza e la bellezza di questa ricerca, non certo una molle compiaciuta acquiescenza a casuali divergenti pulsioni. Tanto più che ricerca e ritrovamento implicano, nel loro dinamismo, la presenza degli altri, a loro volta restituiti a un maggior grado di verità, delle cose, della natura, della cultura.

Certo, l’esito del cammino è parziale, nulla è mai totalmente vero, totalmente acquisito. Salvo il desiderio di verità e compiutezza:

“E, indubbiamente, qualsiasi parte della chiesa che noi osservassimo la differenziava da ogni altra costruzione, ché era come vi fosse infuso un pensiero; ma nel campanile soltanto pareva prendere coscienza di sé, affermare un’esistenza individuale e responsabile. Esso parlava in suo nome…  Il campanile di Saint-Hilaire a tutte le occupazioni, a tutte le ore, a tutti i punti di vista della città dava un aspetto, un compimento, una consacrazione.”    

Quello che il piccolo Marcel, in compagnia della nonna, vede nel campanile di Combray è lo scopo dello scrittore: compito dell’arte è dare compimento e consacrazione a ciascuno e al tempo, ovvero alla vita e alla storia. L’arte sola, nell’universo proustiano, può farlo, ma proprio in quanto essa sola, per la sua stessa natura, non chiude:

“Io penso che la nonna, che non era ‘ credente’, avesse però questa fede implicita, cioè che ponesse quella sorta di bellezza che trovava in certi monumenti, senza saperlo, su di un altro piano, su di un piano più reale di quello della nostra vita (… ) era una di quelle gioie che, in un senso che non comprendiamo bene, sopravvivono alla morte, si rivolgono a qualche cosa dentro di noi che almeno non è sotto il dominio della morte. (…) E se c’è una contraddizione tra quel che sappiamo della fisiologia e la dottrina dell’immortalità dell’anima, non c’è forse contraddizione anche tra certi nostri istinti e la dottrina della mortalità completa? Forse l’una non è più vera dell’altra.” (Da Robert e il capretto, episodio non incluso da Proust in Du coté de chez Swann e pubblicato in appendice nell’edizione Einaudi del 1978).

Resta comunque che il presente approccio, pensato per una classe del triennio delle superiori e limitato alla prima parte del primo volume, è limitato e semplificato. Però, se è fatale, anzi doveroso, che un insegnante semplifichi, ricordiamo che c’è differenza tra la semplificazione che riduce e quella che introduce…                 

 


A cura di:

Giuliana Zanello è nata a Milano nel 1957. Si è laureata all’Università Cattolica del Sacro Cuore e ha insegnato al liceo classico di Busto Arsizio. Collabora occasionalmente con IlSussidiario.net

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