Italo Calvino, Se una notte d'inverno un viaggiatore 

prima edizione Einaudi 1979, ora in Oscar Mondadori,  2016

264 pp,  € 14,25, e-book    € 7,99

 

“- Lei crede che ogni racconto debba avere un principio e una fine? Anticamente un racconto aveva solo due modi per finire: passate tutte le prove, l’eroe e l’eroina si sposavano oppure morivano. Il senso ultimo a cui rimandano tutti i racconti ha due facce: la continuità della vita, l’inevitabilità della morte.

Ti fermi un momento a riflettere su queste parole. Poi fulmineamente decidi che vuoi sposare Ludmilla.”

 Le quattro righe finali dell’undicesimo capitolo sintetizzano buona parte delle caratteristiche di Se una notte d’inverno un viaggiatore, il libro uscito nel giugno del 1979 che fu tra i più fortunati di Italo Calvino, riscuotendo un successo amplissimo in Italia e nel mondo, negli Stati Uniti segnatamente.

Il narratore interpella il personaggio usando la seconda persona, e si costituisce pertanto come narratore onnisciente in prima persona. E questo atto costitutivo è tutto ciò che ne abbiamo. In altre parole, è la presenza del tu ad implicare un io, il quale peraltro consiste di questa sola consistenza logica, oltre la quale nulla ne viene precisato. Un io che parla molto, fin dalla prima pagina, e molto opera, muovendosi in una zona al confine tra la descrizione delle azioni del personaggio, la loro interpretazione, la prescrizione. Parole e azioni di un io del tutto privo di storia, psicologia, sentimenti propri: pura funzione. 

Il narratore, dicevamo, esordisce istituendo un protagonista, cui si rivolge con il tu, che altri non è che il lettore, presentato nell’atto di incominciare a leggere proprio il libro di cui a nostra volta abbiamo appena intrapreso la lettura. Ma la lettura del nuovo libro di Italo Calvino, come tutti ricordano, si rivela un’esperienza frustrante. La copia che il lettore ha tra le mani è stata impaginata male, così che in essa si ripete continuamente il primo capitolo. Il lettore protagonista, il lector fictus, vede crudelmente delusa l’aspettativa di poter continuare a leggere una storia cui si stava appassionando, e lo stesso accade a noi, lettori reali, che nulla più sapremo di quel misterioso viaggiatore notturno e della sua valigia. Infatti, le ricerche affannosamente intraprese dal protagonista per entrare in possesso di una copia non guasta gli mettono tra le mani un libro diverso, anche quello interrotto. Il meccanismo è ripetuto per dieci volte, così che l’insieme è costituito di dieci incipit romanzeschi, legati da undici capitoli in cui si dipanano le peripezie del lettore, sempre più iperboliche e inverosimili, sulle tracce di introvabili finali. Una stralunata queste in cui il lettore incontra una lettrice, innamorandosene, e viene a contatto, via via, in contesti sempre lontani dalla verosimiglianza, con le diverse figure che hanno a che fare con la produzione libraria - un impiegato della casa editrice, un improbabile traduttore, uno scrittore - e il lavoro culturale – professori universitari delle più misteriose letterature, studenti fanatici dell’analisi computazionale dei testi.  

Nell’undicesimo capitolo, il lettore trova finalmente rifugio in una biblioteca, sentendo rinascere la speranza di trovare il seguito di qualcuno, almeno, dei dieci romanzi di cui ha letto il primo capitolo. A questo fine, mette sotto gli occhi del bibliotecario un biglietto su cui ha trascritto di fila i dieci titoli, ma questi, leggendoli di seguito, riconosce nell’insieme l’incipit di un undicesimo romanzo, anch’esso irreperibile, ed esprime infine la sua sentenza: “Lei crede che ogni racconto debba avere un principio e una fine?”

Riassumendo: una cornice, che richiama quella del Decameron, incastona non dieci racconti conclusi ma dieci incipit di romanzo che, nella loro varietà, rappresentano un catalogo del genere romanzesco, dal giallo al romanzo giapponese, al romanzo sudamericano, a quello di spionaggio. In poche pagine Calvino crea un’atmosfera, imposta una trama avventurosa e istituisce un narratore interno  che, in prima persona, ci introduce in una invenzione romanzesca ogni volta narrativamente accattivante e sapientemente elaborata ma convenzionale.   E’ una sorta di rito, nel quale a turno i diversi tipi di romanzo vengono celebrati e poi giustiziati, mentre l’unica vicenda cui è concessa una conclusione è quella affidata alla cornice e contenuta nell’ultima frase citata in apertura: il Lettore decide di sposare Ludmilla. E si può immaginare una conclusione più convenzionale, più scontata, di questo finale matrimonio tra l’eroe e l’eroina? Anche considerando il fatto che l’undicesimo capitolo, nelle cui ultime righe viene annunciata, non è, in realtà, l’ultimo: è seguito, infatti, da un dodicesimo, di sole sette righe, in cui i protagonisti, sposati, sono a letto e lui sta “per finire Se una notte d’inverno un viaggiatore di Italo Calvino”. Così, con la riproposizione dello stilema del doppio finale, di sapore barocco, si conclude il libro che si era aperto con “Stai per cominciare a leggere il nuovo romanzo Se una notte d’inverno un viaggiatore di Italo Calvino”. Da titolo a titolo, con tanto di nome dell’autore: quasi una segnaletica pubblicitaria, quasi un apparato da copertina (e Calvino tante quarte di copertina ha redatto, magistralmente, per Einaudi); tutto dentro il libro, in ogni caso, tutto dentro la letteratura, tutto e solo gioco letterario. E infatti, se nella prima provvisoria conclusione Calvino ci lascia pensare che il lettore, disilluso e sazio dei successivi e vani investimenti emotivi in tanti romanzi falliti, con la repentina decisione di sposare Ludmilla sia approdato, al termine della sua queste, al guadagno fondamentale del conquistato rapporto con la realtà, del primato assegnato alla modesta concretezza di questa sul vuoto luccicante del romanzesco, il capitolo dodicesimo ci strappa dall’illusione, riassorbendo anche quella che era parsa la vita vera nella convenzione romanzesca più trita, e inglobandovi il lettore.

 Il 1979 è anche l’anno di uscita di Lector in fabula di Umberto Eco, e non è un caso. Il lettore, inteso come lettore ideale (e la locuzione ricorre spesso, nel libro di Calvino), concorre ab origine alla creazione, in quanto presenza costante nella mente dell’autore, che nulla elabora se non rivolgendosi implicitamente a quel tu. Ma il lettore è anche il protagonista assoluto dell’interpretazione, ovvero, nel significato che il Novecento ha attribuito al termine, della costruzione del senso dell’opera. Anche questa funzione del lettore è ben presente nell’opera di Calvino, iperbolicamente rappresentata dal traduttore, spericolato manipolatore. Ma il lettore, la sua presenza più o meno esplicitamente richiamata, è anche l’anello di congiunzione tra l’invenzione letteraria e la realtà: è al lettore che si chiede di accettare il patto narrativo, di credere alla verità di ciò che legge per il tempo in cui legge. Richiamarne esplicitamente la presenza significa anche avvertirlo dell’esistenza di questo patto nell’atto in cui gli si chiede di rinnovarlo, significa avvisarlo che la realtà non è lì, ma fuori. Fare del lettore, e proprio per il tempo in cui legge, come certificato dai confini segnati dalla prima e dall’ultima frase dell’opera, il protagonista, comporta da un lato una sorta di pedagogia, un ammonimento a non concedere al racconto più di quanto gli è dovuto, a constatarne la fondamentale, inevitabile falsità; dall’altro lato, però,  il lettore divenuto protagonista è attirato nella bolla narrativa, la sua realtà è ormai solo letteraria: non più protagonista della sua vita ma protagonista di una storia tra le tante, convenzionale e falsa come tante, anzi particolarmente convenzionale e quindi, forse, particolarmente falsa.

 Il lungo corpo a corpo della scrittura di Calvino con la realtà, attraverso la negazione della possibilità  della mimesi e l’affermazione della realtà letteraria come unica realtà che abbia a che fare con la letteratura; il corpo a corpo con la deformazione soggettiva del rappresentato che conduce alla  sempre più radicale riduzione dello scrittore e del narratore alla  funzione testuale; il corpo a corpo con la scienza, tanto meno decettiva della letteratura nella capacità di leggere il mondo, è vicino alla sua conclusione. Gli anni francesi, e in particolare l’esperienza dell’Oulipo, hanno dato forma, se non risposta, ai problemi su cui aveva richiamato l’attenzione fin dai tempi ‘ingenui’ del neorealismo e della fede diffusa in una letteratura dell’impegno. Era, quella, l’unica cultura in cui poteva darsi il romanzo, con la sua fiducia nella mimesi, nella possibilità di fornire un’interpretazione coerente del mondo, un messaggio, ovvero di affidare alla creazione letteraria anche una forma di azione nella storia. A tutto questo si sostituisce la letteratura come struttura, come insieme di forme date, preesistenti all’autore , il cui compito è di rivelarne le linee nitide spogliandole di ogni psicologismo, di ogni ideologismo, di ogni sentimento. Strutture che vivono da sé e significano solo per differenze all’interno di un sistema, infinitamente ricombinabili o, in una seconda versione, quella che più direttamente qui interessa, giustapponibili. L’invenzione torna ad essere un cercare ciò che serve nel già dato, così che la dimensione propria della letteratura si svela come citazione. La citazione medesima guadagna progressivamente terreno, passando da citazione di temi e trame a citazione di stile, come l’opera esaminata mirabilmente documenta, mentre sempre più evanescente appare la possibilità di uno stile individuale. E allora non è un caso che le parti stilisticamente meno convincenti di Se una notte d’inverno…, sempre didascaliche, a volte fino a divenire stucchevoli, siano quelle della cornice.

La componente didascalica, in ogni modo, è sostanziosa, così che il libro si presenta anche come un testo divulgativo delle prospettive critiche della seconda metà del ventesimo secolo; in questo senso, si può definire l’insieme un metaromanzo. Ma non è questa la definizione che ne dà Calvino, e in effetti in essa resterebbe una certa quantità di pretesa realistica, per così dire, di credibilità divulgativa; in forza del riassorbimento della cornice nella dimensione romanzesca, per di più dozzinale, come si diceva, il metaromanzo si è trasformato in iper-romanzo, secondo la definizione dell’autore stesso, assorbendo nell’universo delle strutture letterarie, ovvero del finto,anche la stessa teoria letteraria.

Il romanzo uscì in un momento storico caratterizzato da quello che è stato definito il postmoderno, e delle più  diffuse definizioni di questa temperie ha tutte le caratteristiche. Ne ha anche, almeno a tratti, quel tanto di ottimismo che, nel momento in cui le illusioni novecentesche hanno mostrato la loro decettività e la loro ferocia, deriva dal liberarsene. La liberazione paga però un prezzo altissimo, ovvero l’erosione di ogni speranza di verità e quindi la fine di ogni queste credibile. E nella perenne frustrazione di quel ‘piacere del testo’ che è tutto ciò che rimane dello scrivere e del leggere, e del misterioso nostro bisogno di storie; nel senso di vanità prodotto dall’accumulazione; nell’impressione di trovarsi in un supermercato della letteratura, dove si trova a poco prezzo ogni cosa di poco valore; in tutto questo emerge forse anche una sottile disperazione.

La leggerezza si svela come vuoto, ma come tale si svela, appunto. E ciò segna la distanza con l’altro clamoroso, quantitativamente imparagonabile, successo mondiale della letteratura italiana di quegli anni, Il nome della rosa, apparso l’anno dopo, dove il lettore non viene deluso ma abilmente irretito.

 

 

A cura di:

Giuliana Zanello è nata a Milano nel 1957. Si è laureata all’Università Cattolica del Sacro Cuore e ha insegnato al liceo classico di Busto Arsizio. Collabora occasionalmente con IlSussidiario.net

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