Giorgio Caproni, MANCATO ACQUISTO

in Res amissa  

Tutte le poesie, Garzanti 2016, 1088 p, € 30,00

 

 

Com’è noto, Giorgio Caproni non fece in tempo a completare la sua ultima raccolta di poesie, Res amissa: alla sua morte, l’insieme non aveva ancora assunto forma compiuta di libro, dal punto di vista dell’organizzazione e dell’ordine interno; le singole liriche, tuttavia, pur presenti nelle carte in diverse redazioni e con molte varianti, erano reperibili in un assetto che, anche sulla scorta delle notazioni dell’autore, può dirsi definitivo. Per iniziativa dei figli, la raccolta uscì postuma, a cura di Giorgio Agamben. Tra le più travagliate di rifacimenti e ripensamenti, la lirica su cui ci soffermeremo un poco, Mancato acquisto.

 

(Sul Grave,
ma appena)

Entrai dal mio già abituale
fornitore, dopo
non so che lunga assenza.

Tutto era mutato.

 Quasi

non riconoscevo il locale.


Nessuno al banco.

Diedi

una voce.

Aspettai.

Aspettai a lungo.


Battei,

fuor di pazienza, le mani.


Apparve (sulla trentina,
di strano colorito) un tizio
(certo, di razza non latina)
da me mai prima visto
né conosciuto.

«Mi chiamo»,

mi fece, «Gesù Cristo.


Da tempo qui è cambiata gestione.

Venni con mio padre.

Sono anni.

Mio padre è morto.

Ora,

come voi stesso vedete,
son solo nella conduzione
dell'esercizio.

Comunque,

eccomi a voi.

Chiedete,

e cercherò d'esser pronto
a soddisfarvi.

Il conto

non vi preoccupi.

È un pezzo

che, specie s'è alto il prezzo,
ormai uso far credito.

Ditemi.

Salderete

come e quando vorrete».

....

Lo guardai.

Crollai il capo.

Aveva pur parlato,
è indubbio, a chiare e oneste note.

Ma allora, perché uscii a mani vuote? ...

 

Perché?  L’apologo in cui si distende narrativamente la lirica si chiude con questo interrogativo privo di risposta esplicita, insieme inarcandosi nella pointe problematica e sfumando nell’evanescenza dei puntini di sospensione. E d’altro canto la questione rimane aperta solo in parte, gli elementi della risposta essendo in larga misura ben presenti lungo tutto il componimento.

In primo luogo, l’immagine del negozio, convocata a rappresentare una chiesa, e quella conseguente dell’acquisto di un bene, con i correlativi elementi del prezzo, del credito, della convenienza.  L’interpretazione corrente coglie nell’insieme la metafora della chiesa postconciliare, non più severa e giudicante, chiusa nei suoi riti antichi celebrati un po’ misteriosamente con le spalle ai fedeli, segnata da una stratificata gerarchia che si pone come tramite, e barriera, tra l’uomo e il Cristo. Qui tutto è cambiato: tolto l’apparato sacralizzante, la proposta si offre in un ambiente spoglio, quotidiano, privo di sovrastrutture distanzianti, a viso aperto. Ed è il titolare medesimo, il Cristo, a porgerla amichevolmente all’avventore, senza intermediari. È una proposta che ha perduto qualunque tratto arcigno e qualunque pretesa preventiva: non ci sono prezzi da pagare, non si devono temere rendiconti: la Chiesa misericordiosa del concilio ha sostituito la Chiesa tridentina, veterotestamentaria nella sua terribilità.

La Chiesa che – per sfruttare una volta di più Eliot – aveva ‘abbandonato il mondo’, ora torna a rivolgersi ad esso, impegnandosi a proporre senza costringere, a comprendere senza condannare. Una Chiesa priva di apparato, da cui il messaggio della buona novella promani libero da rigidità gerarchiche e da antiquati e complessi retaggi culturali, ricondotto alla sua essenza: l’incontro con il Salvatore.

Ma allora, perché uscii a mani vuote?

È diffusa l’interpretazione per cui l’uscita a mani vuote starebbe a sua volta a indicare una dimensione fondamentale del cristianesimo postconciliare, nel quale, ad onta dell’apparente domesticità di approccio, in realtà si chiede molto di più al singolo credente: non più sorretto da abitudini socialmente condivise, dalla forza della maggioranza, da schemi tradizionali, questi deve impegnarsi in una risposta personale e non preconfezionata, e per questo tanto più esposta alla possibilità del diniego. Inoltre, il venir meno dell’assenso apparente, solo formale, mette allo scoperto la scelta del singolo con una chiarezza inedita, mentre un tempo la mancanza di autentica adesione era spesso coperta da una pratica solo esteriore e di convenienza.

Si può forse sommessamente dissentire da questa interpretazione, quanto meno saggiando qualche altra prospettiva aperta dal testo.

Osserviamo, per cominciare, l’indicazione di tipo musicale posta in esergo, secondo un costume tipico di Caproni: Sul Grave, ma appena. Con ciò si imposta un sentimento, per così dire, e un sentimento che non sembra intonato al senso di una scelta drammatica, capitale, profondamente coinvolgente.  L’indicazione sembra piuttosto suggerire uno scadimento di livello, una radicale impossibilità di sentire la questione con gravità autentica. Ciò che permetteva di prenderla davvero sul serio è perduto, resta una malinconica ironia.

Siamo poi sicuri che l’immagine commerciale che fa da architrave, a partire dal titolo, possa essere circoscritta nei termini rassicuranti di una analogia con la quotidianità concreta degli uomini, di una vicinanza amichevole?

No, occorre restituirla alla sua forza spiazzante: l’altare postconciliare è un bancone di negozio, la chiesa è un luogo dove, come in innumerevoli altri, ci si ingegna a smerciare un prodotto; è un problema di marketing e di prezzo, e, se il prodotto viene via a poco, vuol dire che il settore è in crisi.

Come si conviene ad un esercizio commerciale in declino, non ci sono più commessi e il rarefarsi dei clienti induce anche il titolare ad appartarsi nel retro. Però poi risponde all’appello, ed è proprio lui, Gesù Cristo. Il cliente afferma di non averlo mai incontrato in passato, al tempo delle sue frequentazioni abituali, e ciò segna indubbiamente un punto a favore dell’interpretazione più diffusa: la Chiesa rinnovata permette quell’incontro personale con Gesù che la Chiesa tridentina rendeva difficile. Tuttavia, a revocare in dubbio questa interpretazione, che si può definire ottimistica, provvedono proprio le prime parole di Gesù: Mio padre è morto.

Lo snodo fondamentale della lirica è qui, in questa affermazione già carica di storia, già ripetuta e commentata fino all’usura, fino all’impresentabilità al di fuori di un contesto di declassamento ironico; e così la presenta Caproni, gettandola lì come una informazione normale, come una frase di quelle che si dicono riprendendo i rapporti con chi era via da un po’, quando si ricomincia sempre- questa è la nostra sorte- dall’elenco dei morti. Inclusa nella grande immagine complessiva come un particolare tra i tanti, la terribile frase rimane a mezza via, sospesa tra la scontatezza della coerenza metaforica (un giovane ha ereditato dal padre un esercizio commerciale) che la rende quasi invisibile, nell’ostentata ferialità discorsiva del dettato, e la portata dirompente che ha avuto nella storia della cultura europea. È ancora dirompente, la celebre frase? Caproni parrebbe dire di no, se persino Gesù in persona può pronunciarla come si enuncia un’informazione di servizio. La tragedia è già archiviata.

È credibile, a questo punto, una lettura del testo che vi individui una valutazione positiva della Chiesa postconciliare? O non vi si rappresenta, piuttosto, una Chiesa rassegnata alla modernità secolarizzata, che non tanto mette al centro, al posto di Dio Padre, il Cristo, quanto piuttosto, al posto del Cristo, il solo Gesù?   

 La lirica è stata scritta nel 1989. Un po’ tardi per manifestare stupore di fronte a mutamenti ormai vecchi di decenni. No, i mutamenti semplicemente si constatano, come accade sempre, dopo prolungate assenze. E res amissa, la cosa perduta, che, in diverse declinazioni, accomuna le liriche della raccolta, non è certo la Chiesa tridentina. Res amissa è la dimensione propriamente religiosa, la possibilità di darle credito, di metterla al centro del dramma della vita. Di porla come una domanda decisiva, quand’anche rimanesse senza risposta.

È un problema solo dell’avventore – autore, dell’‘ateologo’ Caproni, o è anche in parte un problema della Chiesa?

La triste, dimessa e perplessa rinuncia è assunta in proprio dal poeta. Ma il quadro che tratteggia riguarda anche la Chiesa, la sua battaglia difficile con la secolarizzazione, che è fuori di essa ma anche, come sembra dire Caproni con la sua ironica orfanezza di Gesù, dentro ogni cristiano.

Sono le stesse linee lungo cui si muove l’analisi che Massimo Cacciari ha tracciato su Avvenire, in questi giorni segnati dalla morte di Benedetto XVI:

“L’evangelizzazione dell’Europa è un compito impossibile. Ecco perché Ratzinger, come Wojtyla, è una figura tragica. In entrambi vibrava l’attesa che, caduto il comunismo, iniziasse una nuova evangelizzazione per l’Europa. Ma è un’aspettativa delusa perché le potenze della secolarizzazione la rendono impossibile. Per questo tutti i termini (…) possono essere soltanto declinati in termini etico-morali: in una chiave diversa non verrebbero ascoltati.”

Ma i termini etico-morali hanno davvero maggiore probabilità di successo? Vengono ascoltati o solo accettati, quando si inseriscano senza sforzo in un arredamento mentale che si ritiene acquistato altrove, senza che le stanze rimandino altra eco?

Aveva pur parlato,

è indubbio, a chiare e oneste note.

Ma allora, perché uscii a mani vuote?...

 

A cura di:

Giuliana Zanello è nata a Milano nel 1957. Si è laureata all’Università Cattolica del Sacro Cuore e ha insegnato al liceo classico di Busto Arsizio. Collabora occasionalmente con IlSussidiario.net

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