IL LIBRO DEI RISVOLTI

di Italo Calvino

 

Ed. Mondadori, Oscar moderni cult, 2023
pp. 444,   
€ 15,00 

 

Un vasto brusio, un sovrapporsi armonioso di accenti, un’intonazione interrogativa irrelata e insieme accogliente ed affettuosa: nello sfoglio rapido, nell’esame rapsodico, nella sosta più lunga e attenta, ci raggiunge e fiduciosamente ci invita il miracolo della letteratura.

 lI libro dei risvolti raccoglie note introduttive, quarte di copertina e altre scritture editoriali di Italo Calvino, distribuite in un arco di tempo che va dal 1949 al 1983. Uscito nel 2002 e da pochi mesi disponibile negli Oscar moderni, presenta circa duecento libri, quasi sempre romanzi, che nel loro insieme compongono un ricco panorama della narrativa tra otto e novecento (da Puskin a Del Giudice, con qualche eccezione, tra cui notevole è quella rappresentata da numerosi testi di Shakespeare) italiana, europea, americana. Il novecento prevale nettamente, così che alla fine ne risulta anche un mosaico della storia e della storia culturale del secolo. Per quanto riguarda, in particolare, la narrativa italiana, il gioco delle presenze, singole o plurime, ci dà inoltre la misura della durata di certe fortune, anche notevoli, cui ha fatto seguito un rapido e pressoché completo oblio; in altri casi, invece, le ricorrenze mostrano già saldamente riconosciuta una grandezza che il tempo ha confermato, come accade per Cesare Pavese. Ci si sorprende di quanti libri e autori già siano stati nascosti da un cono d’ombra, e viene voglia di andare a cercarli, di ascoltare se non abbiano ancora qualcosa da dirci. Perché viene voglia di leggerli o rileggerli tutti, questi libri dei risvolti calviniani. La raccolta regala questa esperienza inaspettata, e insieme quella di un repertorio di testi autonomi che si svela come testo, di centinaia di discorsi sulla narrativa che si svelano come un discorso e come una narrazione. Viene voglia di leggerli tutti, dicevamo. Ed è perfino ovvio, dato che i risvolti o le brevi introduzioni hanno appunto il preciso scopo di invogliare il lettore, differenziandosi, dunque, tanto dal parere critico quanto dalla scheda informativa di tipo enciclopedico. Non possono trovarvi posto rilievi negativi né, d’altra parte, sintesi esaurienti, virtualmente sostitutive della lettura diretta.  Si tratta di testi di tipo eminentemente suasorio, volti a promuovere un’azione. E in questo Calvino si rivela abilissimo, come già abbiamo detto. Volendo poi guardare un po’ più addentro agli strumenti del mestiere messi in campo, ricordiamo gli incipit, sempre incisivi, spesso memorabili. Basteranno pochi esempi. “Si può scrivere un racconto su un problema della nostra società che sia un’analisi chiara ed esauriente del problema, delle sue cause sociali, storiche, politiche, morali, un vibrato ‘pamphlet di denuncia’, e -nello stesso tempo- quello che si dice un bel racconto?”( Sciascia, Il giorno della civetta);” “L’umorismo del veneziano Ugo Facco De Lagarda è carico di una dolorosa coscienza e il suo amore per gente luoghi e fatti è tutto nutrito di veleni” (La grande Olga); infine, fulminante, Il commesso, di Bernard Malamud: “ Una New York di gente minuta, rotolata fin là con l’ondata delle emigrazioni e, appena riavuta dal primo sbigottimento, a trovarsi in quel mondo smisurato, subito ansiosa di trovare un avito equilibrio e ricostruire attorno a sé le dimensioni del villaggio (…)” .  “Se l’incipit serve a catturare l’attenzione del lettore, l’explicit deve tramutarla in volontà di saperne di più. Anche in questo Calvino fu maestro”, scrive Tommaso Munari nell’introduzione, adducendo poi un esempio che davvero basta per tutti, là dove Calvino chiude il risvolto del secondo volume delle Lettere di Cesare Pavese con queste parole: “Il breve 1950 di Cesare Pavese è come un’incursione che quest’abitante di tempi duri compie nel futuro, nel mondo ‘facile’ che abitiamo noi oggi, per sapere cosa si prepara. Ci fa visita, si guarda intorno rapido. E non gli piace. E se ne va.”

La grande varietà dei soggetti, diversi per argomento, provenienza geografica, cronologia, e l’ampiezza dell’arco temporale su cui il lavoro di Calvino si distribuì inducono a considerare con un certo stupore l’unità di fondo cui si è già fatto cenno, a interrogarsi sulla sua natura. Da dove viene la sensazione di armonia, in tanto sfavillare di colori diversi? Che cosa determina l’affascinante unità di tono? Forse, certo semplificando, si può dire che la nota costante è data dal rispetto. Rispetto per l’autore, rispetto per il lettore.

Come si diceva, il paratesto editoriale è luogo deputato all’elogio, pena grave contraddizione. Ma sappiamo bene come l’elogio possa essere poco rispettoso, quando sia generico, esagerato, effettistico, strumentalizzante. Nel caso di Calvino, si coglie tra le righe la disposizione d’animo del lettore attento a cogliere l’originalità di una voce, il segreto di una costruzione, il punto di verità cui approda il lavorio dello scrittore. Si spiegano così osservazioni e rilievi tecnici che si risolvono in illuminanti giudizi critici, anche travalicanti i limiti dell’opera presentata. Ricorriamo ancora a due esempi, uno relativo a un nome assai noto, a una figura pienamente inserita nel panorama culturale italiano del novecento, di fama perdurante; l’altro a uno scrittore isolato, già pericolosamente avvolto dal nebbioso manto del tempo.

Nel primo caso, la presentazione di Tutti i nostri ieri di Natalia Ginzburg si chiude con un’analisi contestualizzante che inserisce il testo nelle linee di sviluppo della narrativa contemporanea; l’ampliamento dell’orizzonte, tuttavia, se contribuisce a calibrarne il valore e ad illuminarne alcuni aspetti, sfugge al rischio, sempre così incombente, di dissolverlo in uno schema storiografico, in virtù di un immediato, precisissimo ritorno alla sua voce particolare: “Stilisticamente il libro si situa come un originale ‘tour de force’, nella linea degli interessi più attuali per lo stile narrativo: il linguaggio ‘umile’, la ‘sottoconversazione’. Solo che qui le parole dette e le voci sono assorbite in una sorta di continua eco mentale: per cui la narrazione è condotta quasi senza dialoghi diretti, le poche battute riportate tra lineette figurano quasi come assiomi o proverbi fuori dal tempo, affioranti tra le proposizioni indirette di un flusso sintattico rudimentale.”

Ma vediamo il secondo esempio, questa volta relativo, come si diceva, a un isolato, a un caso, assai raro in Italia, di “scrittore operaio”, Luigi Davì, valdostano di origine, torinese di adozione, morto nel 2021. Nel 1963 così Calvino apre il ‘risvolto’ dell’edizione nella collana dei Coralli della raccolta L’aria che respiri: “La definizione di ‘scrittore operaio’, anzi de ‘lo scrittore operaio’ della letteratura italiana per antonomasia, a Luigi Davì garba poco, e a ragione, se prendiamo la classificazione sociologica come una limitazione. Davì scrive perché è scrittore, scrittore fino alla radice dei capelli: il piacere delle parole, di riportare sulla carta le parole soltanto parlate, di mescolarle con le parole soltanto scritte, di vedere il guizzo diverso che prende una frase appena le si dà un certo snodo sintattico, una sospensione, un’inversione, una virgola, è un piacere che lui intende fino in fondo, e che sa comunicarci. “

Calvino stesso, com’è noto, dichiarava apertamente come il suo vero lavoro fossero i libri degli altri, ma ciò vale in due direzioni: verso lo scrittore, destinatario di una attenzione e di una stima qualificate, non riducibili agli scopi commerciali, di cui si è data parzialissima documentazione; verso il recensore, che, se da un lato si avvale dell’acribia proveniente dal mestiere comune, dall’altro abbevera consapevolmente la sua vocazione agli esiti altrui. Da qui quel rispetto di cui si diceva, quella sorta di calore amichevole, di stupore, anche, di fronte alla riuscita di ardue alchimie, al comporsi di complessi affreschi, al definirsi linguistico dell’osservazione di realtà.

Ma, dicevamo, nell’atmosfera del libro non meno rilevante è il rispetto per il lettore, nel senso che la raccolta può essere interpretata anche come una ricca illustrazione della differenza che corre tra persuadere e imbonire. Con le diverse sfumature legate alle differenti collane (il destinatario ideale della Piccola biblioteca scientifico letteraria non è lo stesso dei Coralli), al lettore si fa sempre credito di un’ambizione elevata, del desiderio di capire e migliorarsi. Prima che indotto all’acquisto, egli viene attirato, per così dire, all’interno di una conversazione colta e pensosa, e insieme limpida e abbordabile. Con il potenziale acquirente si argomenta una scelta editoriale, il cui esito è cortesemente sottoposto all’esame della sua intelligenza. E qui ci fermiamo, senza troppo idealizzare, prima che l’affabilità signorile dello stile di Calvino ci induca a dimenticare che quell’ambiente culturale ha pur fatto le sue vittime, ha conosciuto incomprensioni e crudeli esclusioni (e basterebbe pensare a Morselli). Tuttavia è innegabile che questi episodi siano da addebitare all’errore, e non alla regola, e che il libro qui esaminato documenti la tenuta di un equilibrio tra fini commerciali e culturali che è segno di un momento felice della nostra storia letteraria.

Un libro prezioso, dunque, sotto diversi riguardi: l’ampiezza della rassegna, che consente al lettore d’oggi scoperte e recuperi; le splendide sintesi, dove per sintesi si intende non il condensato schematico ma la messa a fuoco, in poche righe, del cuore pulsante dell’opera; la possibilità di accostarsi al lavoro editoriale, e in particolare ai diversi aspetti del paratesto, attraverso una testimonianza eccezionale di scrupolo ed eleganza suasoria. E infine le spigolature critiche, dicevamo, discretamente disseminate, quelle acute osservazioni di Calvino che inevitabilmente cambiano, una volta lette, il nostro rapporto con un libro.

 

 

A cura di:

Giuliana Zanello è nata a Milano nel 1957. Si è laureata all’Università Cattolica del Sacro Cuore e ha insegnato al liceo classico di Busto Arsizio. Collabora occasionalmente con IlSussidiario.net

CDOLogo DIESSEDove siamo