THE FROZEN BOY

 Autore: Guido Sgardoli

Edizioni San Paolo, seconda edizione 2020 - € 10,00

pagine: 199

Target: dai 12 anni

Vincitore premi: LiBeR – miglior libro 2011 e  White Ravens 2012

 

Metti un ragazzino di undici anni, uno scienziato - fisico nucleare di sessantaquattro anni, la moglie, dalla quale è divorziato da sette anni, e l’amica della moglie, che ha tramutato il sentimento di profondo affetto per lei in smisurato odio per lui.
E poi, un laboratorio scientifico degli USA in Groenlandia, una casa sull’Atlantico nel Massachusetts e un villaggio di campagna prossimo alla costa occidentale dell’Irlanda.
A completare il tutto, il tempo di svolgimento: poco più di sei settimane, tra l’aprile e il maggio del 1946.
Ecco, questi gli ingredienti base che danno vita a “The frozen boy”, un romanzo per ragazzi avvincente e profondo.

La storia. Robert Warren nel 1946 è un uomo schiacciato dalle macerie della sua stessa esistenza. Anni esaltanti di ricerca a Los Alamos, dedicati allo studio della fissione nucleare all’interno del “Progetto Manhattan”, una moglie, Susan, che lo ha amato accettando per lunghi anni il suo anteporre il lavoro agli affetti famigliari, un figlio, Jack, al quale ha dedicato pochissimo tempo e affetto ancor meno. E così, negli ultimi anni la sua vita era crollata: Susan, “constatato d’essere vedova di un vivo”, aveva optato per il divorzio; Jack, con la maggiore età, si era arruolato e aveva trovato la morte in un’esplosione nel Pacifico; da ultimo, le bombe atomiche sganciate su Hiroshima e Nagasaki avevano tolto la vita a più di 200.000 civili.
Il disastro della sua famiglia e il dato terribile delle migliaia di vittime innocenti stavano, inesorabili, davanti alla sua coscienza, alimentando in lui un crescente rimorso. Questo forte malessere non era sfuggito ai capi del Pentagono, i quali, nel timore che potesse esternare “scomode parole”,  lo avevano trasferito in una base scientifica militare nella lontana e isolata Groenlandia.
Ma proprio quando la percezione del fallimento sta per avere il sopravvento – aveva deciso da tempo di farla finita – Robert si imbatte in un fatto sconvolgente: il corpo di un ragazzino, congelato in una lastra di ghiaccio a strapiombo sul Mar di Groenlandia. L’aspetto ancor più incredibile è che Jim, dopo essere stato recuperato, “scongelato” e assistito nell’infermeria della base, è vivo.
Da questo momento inizia una seconda vita anche per il professor Warren, che si dedica anima e corpo per capire chi fosse quel ragazzino, da quale paese e da quale tempo provenisse, e, contemporaneamente, fa di tutto per salvarlo dagli uomini dei servizi segreti, che volevano utilizzarlo come cavia per lo sviluppo delle tecniche di ibernazione umana.  

Il romanzo e lo stile. “The frozen boy” è una storia credibile, sorretta da una trama poliedrica: da racconto giallo per la giusta dose di suspense e d’avventura per le situazioni rocambolesche e al limite della realtà; inoltre, lo svolgimento delle vicende è integrato da una puntuale e progressiva caratterizzazione psicologica dei personaggi. 
Grazie a queste strutture narrative ben padroneggiate da Sgardoli, il romanzo si legge tutto d’un fiato e, nello stesso tempo, con estrema naturalezza consegna al lettore contenuti profondi e universali: fallimento e speranza, male e redenzione, appartenenza e paternità.
Lo stile espositivo è adatto ai ragazzi: prevalgono periodi brevi costruiti con poche subordinate, l’azione dei personaggi è sempre chiara e continua, la presenza di elementi descrittivi è ridotta allo stretto necessario. La personalità dei protagonisti emerge tramite il loro agire, nei dialoghi e attraverso l’intervento del narratore onnisciente che man mano precisa  il dramma umano di ciascuno. Da apprezzare, inoltre, la presenza diffusa di similitudini e di subordinate comparative e modali, elementi che, realizzando un accostamento con aspetti reali e noti, favoriscono una comprensione precisa ed efficace.

 Le tematiche. Fallimento e speranza.

[Robert] A volte l’io scostante nel quale per carattere si trovava rinchiuso disorientava le persone che lo avvicinavano … La nascita di Jack aveva sancito definitivamente il suo fallimento: la sbiadita passione di Robert restava un balbettio di affetto, sterile, e il muro che lo divideva dal resto del mondo ancora saldo e invalicabile. Con il tempo egli trasferì sempre maggior tempo dalla famiglia alle sue ricerche … Dopo il divorzio e l’arruolamento di Jack, l’isolamento affettivo di Robert era divenuto pressoché totale”.
Cosa salvare di un’esistenza nella quale, fatta eccezione per la riuscita professionale, niente rimane in piedi? Da quale punto ripartire, da che parte guardare? Questi gli interrogativi di Warren, un uomo che “crede [solo] nei rapporti di causa ed effetto”
Eppure, all’improvviso la vita di Robert si riaccende, il ragazzino da lui ritrovato nel ghiaccio è il fatto dirompente che gli regala un nuovo scopo per cui vivere: “Sentì qualcosa muoversi dentro di sé, un soffio, il riverbero di un pensiero che riconobbe come speranza, un sentimento da troppo tempo assente nella sua vita. Era un moto a luogo, il carburante che spingeva avanti lui e Jim e l’auto sulla quale viaggiavano. C’era speranza nei pensieri di Robert Warren. C’era ancora una strada da percorrere e un’idea nella quale credere”. Interessante ed efficace la metafora del “moto a luogo”: la speranza non è solo un sentimento (tramite il quale la si può percepire), è anche la vita impegnata, in moto verso una meta - materiale e valoriale - da raggiungere. 

Male e redenzione.

Come tutti, dopo i sessant’anni anche Robert traccia dei bilanci della propria esistenza. E non può fare a meno di considerare sia il male che ha fatto a Susan e a Jack, sotto forma di mancato amore coniugale e paterno, sia il disastro che, indirettamente, con i suoi studi sull’energia atomica ha contribuito a far accadere: “quelle notti continuavano a popolarsi delle voci dei bambini, delle mamme, degli operai, degli impiegati, dei commercianti, degli artigiani, degli studenti, delle maestre, degli anziani, dei malati, di tutti gli esseri umani che in quelle due città del Giappone erano stati cancellati in uno schiocco di dita dall’alito incandescente di bombe”.
Nonostante questa enorme disperazione, per Warren, grazie a Jim, nasce la possibilità di una riparazione dell’esistenza, una nuova occasione, come se di colpo fosse stato premuto il tasto di reset: [Robert rivolto a Beth] “Qualcuno mi ha detto che ho ricevuto in dono una seconda possibilità. È da qui che voglio ripartire. Dalle occasioni perdute, senza guardare al passato, senza sapere cosa sia giusto e cosa non lo sia”.
Queste parole, stampate nella quarta di copertina, sono molto dense e ricche di implicazioni: nel caso di Robert si tratta della “seconda” ma tutto lascia intendere che di “possibilità”, l’esistenza umana ne conceda in quantità; le occasioni della vita, dalle più piccole alle più grandi, sono “un dono” e, come tale, può solo “essere ricevuto”; e, da ultimo, “si riparte dalle occasioni perdute”, da quelle che bruciano di più e che, proprio per questo, chiedono un positivo che in qualche modo le riscatti e dia un senso al dolore provocato. Qui è evidente come il dedicarsi a Jim sia per Warren offrire le attenzioni e l’amore che non era riuscito a dare al figlio Jack.
C’è, inoltre, una parola che più di tutte è in grado di opporsi al male fatto, e l’autore la fa dire a Beth, ormai diventata preziosa complice nell’azione di salvezza del ragazzo: “… scopro che c’è Jim con te, un cucciolo spaesato e indifeso, e scopro anche che tu, Bob Warren, hai un cuore, Dio del cielo, un cuore, e che, sebbene non te ne renda pienamente conto, lo hai donato a quella creatura, a un bambino senza passato e forse senza futuro, a un caso disperato. Una cosa da non crederci, una cosa che puzza di… di redenzione! E io, mi dici ora io come posso continuare a odiarti, o anche solo a provare la stessa indifferenza?”. Redenzione: un bene che si impone, che sana le ferite di qualcuno e che, allo stesso tempo, ritorna come perdono su chi lo compie.

Appartenenza e paternità.

Di Jim non si conoscono l’identità né la lingua parlata né il paese di provenienza né da quanto tempo sia rimasto ibernato; l’unico dato evidente è il vestiario - scarpe e abiti di foggia antiquata - che potrebbe risalire a cinquanta o anche cento anni prima. Per lui, dopo il risveglio, l’unico appiglio è Bobwarren, l’uomo che accanto al letto gli leggeva poesie e di cui aveva imparato a conoscere la voce: “Anche se non le capiva, per il ragazzo del ghiaccio le parole erano come musica. Una musica che gli fece salire agli occhi una lacrima”. Warren farà di tutto per scoprire la sua terra d’origine e portarlo a casa, nel paese dove viveva con la sua famiglia. E ci riuscirà: “Quando apparvero le Dodici Cime, Jim mandò un grido. - Baile -, ripetè. Casa. Baile significava màthair e athair, e Patrick e Jane, Daniel e Johanna, Cathy e il piccolo Tmothy, la sua famiglia”. In questo epilogo affiora prepotentemente il tema delle radici, dell’appartenenza. Il bisogno di identità di Jim (che non ha più la memoria) è capitale, così come lo è per ogni individuo durante la crescita: la domanda “Io, chi sono?” coincide con “Io, di chi sono? A chi appartengo?”.
L’altro grande tema è la paternità, quella dimensione della vita umana di cui, nel romanzo, Warren è maestro: in lui riemerge questa misteriosa capacità di bene, di protezione, di “aprire varchi” nell’esistenza di chi ci è affidato, c’era solo bisogno di un fatto che la rimettesse in moto. Il romanzo ci aiuta a capire che si tratta di una facoltà innata nell’uomo, tant’è che Robert si ritrova (a sessantaquattro anni!) a essere padre di un ragazzino che non è figlio suo. Sgardoli riesce a tratteggiare con estrema naturalezza le caratteristiche della paternità e chiunque, leggendolo, può facilmente rimanerne commosso: “Warren ripensò a come il ragazzo lo guardava a volte, come i suoi occhi si aggrappavano ai suoi, rasserenandosi. […] Il temporale lo aveva spaventato. Warren gli fece posto, il bambino si stese e si rannicchiò contro il fianco dell’uomo, tremante. Rimasero a lungo abbracciati, scambiandosi il calore e i ritmi dei loro cuori emozionati. Infine Jim si sporse verso la guancia ispida di Bob e gli diede un bacio. – Buonanotte – disse Bob, e l’uomo e il bambino si addormentarono”.

Agganci con la didattica. Le vicende di  Robert Warren somigliano molto a quelle vissute nella realtà da J. Robert Oppenheimer, recentemente portato alla ribalta dall’omonimo bel film di Christopher Nolan. Entrambi sono fisici nucleari coinvolti nel  “Progetto Manhattan” (il secondo ne è stato direttore scientifico dal 1942 al 1946) ed entrambi vivono una lacerante crisi di coscienza dopo il lancio delle bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki. Terminata la lettura è facile quindi attivare un approfondimento critico, non solo in chiave storica, sugli anni della Seconda guerra mondiale e sullo sviluppo degli armamenti atomici.
Il libro favorisce anche un altro collegamento con la storia, quella dell’800 proposta nelle classi seconde medie, ed è riconducibile alle crisi agrarie europee e alle grandi migrazioni verso l’America. Però mi fermo qui e non aggiungo altro per non rovinare il godimento della lettura del romanzo, della scoperta pagina dopo pagina.

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PS.  Nella recensione che precede, vista la complessità dei punti trattati, non ho volutamente inserito un tema molto interessante e impegnativo, quello della INCOMPIUTEZZA.

Per Sgardoli dovrebbe trattarsi di un aspetto molto significativo, tant’è che nel romanzo ne parlano ben due personaggi: Jim, il ragazzo “congelato”, e Beth, la donna che aiuta il professor Warren a salvare il ragazzo.

[Jim] “A volte, quando riemergeva dai sogni o dai ricordi, si sentiva diviso,come un ceppo tagliato in due da un colpo di scure: una parte restava là dove stavano i pensieri, un’altra cercava di adattarsi ai nuovi luoghi, ai nuovi volti. Ma quel che lo metteva a disagio era il fatto di intuire dolorosamente che lui non apparteneva a nessuna delle due parti. Era come lasciare una casa ridotta in macerie per andare in una non ancora finita di costruire. Un senso di incompiutezza sempre presente che lo angustiava come un crampo”. Pag. 113

“Mangiarono tutti e tre insieme, Jim, Warren e Beth, come una piccola famiglia, in un’atmosfera raccolta e distesa. Ci furono sguardi e sorrisi complici e piccole frasi sommesse e semplici e rumore di posate delicatamente poggiate e gorgoglii d’acqua versata in grandi bicchieri colorati e luci soffuse […]      
Dopocena Beth lavò i piatti e Bob li asciugò mentre Jim, seduto a tavola, li osservava. Poi Beth disse che avrebbe fatto un salto in Eden Road. 
Prima di uscire rimase a guardare, non vista, l’uomo
e il ragazzo, uno accanto all’altro sul divano, davanti al camino acceso, e distrattamente registrò una piccola fitta sbocciarle nel cuore. Non perse tempo ad analizzarla, non le interessava sapere se quel dolore acuto e improvviso fosse dovuto alla sensazione di incompiutezza che alle volte le capitava di provare ripensando alla propria vita, qualcosa di molto simile a un rimpianto, oppure derivasse semplicemente dalla partecipazione alla vicenda di due anime sole che si andavano cercando. […] Il motivo per cui non le interessava sapere da dove venisse la fitta che aveva avvertito era che in realtà lo sapeva perfettamente”. Pagg. 145-146

Mi ha colpito il fatto che l’autore utilizzi proprio la parola incompiutezza per parlare di un aspetto esistenziale normalmente taciuto o , al massimo, relegato nella fase dell’adolescenza. L’esigenza di essere completato, compiuto, interamente realizzato, è un dato dell’esperienza di ogni essere umano, che di tanto in tanto riemerge nitidamente, e che in qualche modo ha a che fare con l’attesa.
[Attesa intesa alla Cesare Pavese, quando nel suo diario scrive: “Qualcuno ci ha mai promesso qualcosa? E allora perché attendiamo?”; cioè niente, neanche la più grande delusione, può estirpare questa innata aspettativa del compimento.]   
Per Sgardoli, nel ragazzo Jim l’incompiutezza è avvertita come “sempre presente”, come un’“angustia”, una pena anche a livello fisico, “come un crampo”.
In Beth l’incompiutezza si manifesta come “una piccola fitta nel cuore” e viene percepita sia “come un dolore acuto e improvviso”, sia come “un rimpianto”. È qualcosa che smuove il cuore allo stesso livello di una gioia grande, che si sperimenta quando il bene si impone. E infatti a Beth (a pag. 146) “non interessava sapere da dove venisse la fitta al cuore”, perché incompiutezza e bene sperimentato sono entrambi radicati nel profondo dell’uomo.

 Mi è sembrato utile parlare di questa tematica per non perdere niente della ricchezza di contenuti presente nel romanzo.

 

 


A cura di:           

SERGIO FANNI. Laureato all’Università degli Studi di Milano, ha insegnato Lettere nella secondaria di I grado di Santo Stefano Ticino (MI) dal 1983 al 2005 e, successivamente, nell’Istituto “San Girolamo Emiliani” dei P.P. Somaschi di Corbetta (MI). Dal settembre 2020 è felicemente in pensione e prosegue il suo impegno educativo/didattico come volontario presso l’istituto di Corbetta.

 

 

 

 

 

 

 

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