Cover: riscrittura o reinterpretazione?

  

Con il mio umile contributo di oggi non voglio affrontare un genere musicale o un autore e neppure un album particolarmente riuscito, ma provare ad indagare un po’ il concetto di cover. Con questo termine si intende la versione di un brano o di una canzone, e già da subito possiamo e dobbiamo fare un distinguo: ci sono cover che vogliono essere uguali, simili, o comunque rispecchiare l’originale ed altre che invece volontariamente se ne distaccano. E questo distacco, diremmo meglio, questa variazione, può essere compiuta in molteplici maniere: semplificando l’accompagnamento del brano oppure arricchendone l’arrangiamento; cambiando la tessitura vocale dell’interprete; facendo una versione strumentale di un brano originalmente cantato o viceversa, mettendo un testo ad un brano che ne era sprovvisto.

All’interno di questa semplice e un po’ spartana tripartizione di varianti possiamo naturalmente trovare tutte le possibili combinazioni. Ma più che per trattazione teorica, credo sia meglio andare per esempi. Dopo un piccolo chiarimento.

Quando si ascolta un brano di musica scritta (suonata da un solista, da un ensemble, da un’orchestra), non parliamo di cover, ma di esecuzione o interpretazione. Soprattutto nella musica classica, ma anche in altri generi, la musica è scritta e va eseguita così come è scritta, al limite l’esecutore (o il direttore d’orchestra) può variare il tempo, il piglio, dare maggiore o minor carattere, ma la musica è quella. Se un compositore prende un brano e lo riscrive per un organico diverso, si parla invece di arrangiamento o orchestrazione. Ma una volta fatto l’adattamento, anche qui si suona quello che c’è sullo spartito! Nel jazz poi la questione è ancora diversa: normalmente il tema del brano viene esposto, magari variandolo un po’, essendoci più margine per l’interpretazione personale. Ma soprattutto viene dato molto spazio all’improvvisazione, cioè sulla stessa struttura armonica del brano alcuni o tutti gli esecutori fanno un assolo (o a solo), improvvisandolo al momento. Non si tratta, naturalmente (qualcuno potrebbe pensarlo), di note suonate a caso, ma di melodie estemporanee (cioè create, inventate al momento dell’esecuzione) che si basano sugli accordi del pezzo e da lì partono per l’improvvisazione, per l’appunto. Quindi né in un caso, né nell’altro io ritengo corretto parlare di cover: in un caso si parla di diverse sensibilità esecutive, nell’altro di improvvisazione.

Torniamo dunque al tema del giorno: canzoni o brani di cui si crea una versione simile o alternativa all’originale. Cominciamo con un paio di esempi tutto sommato simili all’originale. Tutti o quasi conoscono Io ho in mente te, canzone di immenso successo dell’Equipe 84 di Maurizio Vandelli, uscita nel 1966 ma cantata ancora oggi ed emblema del beat italiano. Ma forse non tutti sanno che (per dirla con la Settimana engmistica!) la canzone era la cover di un brano uscito l’anno prima ad opera di una band chiamata We Five, il brano si intitolava You Were On My Mind. Se ascoltate l’originale A QUESTO LINK e poi lo confrontate con la cover italiana A QUEST'ALTRO, vi accorgerete che, a parte qualche ovvia differenza, lo stile, il mood e l’arrangiamento delle due canzoni sono molto simili. Ed anche il testo italiano, affidato a Mogol, vuole riecheggiare grossomodo l’originale.

Forse ancora più simili sono le due canzoni seguenti, THE ROAD del cantautore statunitense Jackson Browne e la sua versione italiana  UNA CITTA' PER CANTARE di Ron, con una parte vocale affidata a Lucio Dalla, che in quegli anni aveva scoperto il giovane cantautore Rosalino Cellamare (che solo successivamente diventò Ron). Qui l’arrangiamento è copiato quasi pedissequamente, con il violino che contrappunta la chitarra acustica nella prima parte della canzone e poi l’ingresso della batteria e del resto della band esattamente nello stesso punto. Inutile notare che entrambe le canzoni sono eseguite durante un concerto.

Gli esempi di questo tipo potrebbero essere tanti, ma spingiamoci un po’ più lontano e facciamo tre esempi di canzoni che, in versioni successive, vengono completamente trasformate. È il 1969 quando Mogol scrive una canzone insieme a Carlo Donida per la cantante sarda Marisa Sannia. La canzone, che diventa un discreto successo e merita anche qualche apparizione televisiva, si intitola La compagnia. Ascoltatela anche nella sua VERSIONE ORIGINALE. Sette anni dopo Lucio Battisti decide di riprenderla ed inserirla nel suo celebre album Lucio Battisti, la batteria, il contrabbasso, eccetera… (quello che conteneva Ancora tu, per intenderci), ed il risultato è questo! L’originale della Sannia era affidato ad un arrangiamento folk, simil country, con chitarra 12 corde ed archi, un po’ ispirandosi (probabilmente) alla morandiana Un mondo d’amore, di un paio d’anni prima (chi si ricorda “C’è un grande prato verde / dove nascono speranze / che si chiamano ragazzi / quello è il grande prato dell’amore…”?). L’arrangiamento della versione di Battisti è invece uno scarno rhythm’n’blues, completamente diverso e che subirà altre trasformazioni nelle cover di altri artisti, come i sardi Tazenda, Mina e nel 2007 niente meno che VASCO ROSSI, che ne farà un possente rock blues, dando alla canzone nuova linfa e facendola conoscere alle nuove generazioni.

Piccola postilla: questo è il potere di certe cover: se non si conosce l’originale, diventano esse stesse originali per chi le ascolta. Un esempio su tutti è quello che accadde alla versione della dylaniana Knockin’ On Heaven’s Door ad opera dei Guns’n’Roses, uscita all’inizio degli anni ’90 dello scorso secolo, che molti ragazzi credevano brano originale della rock band, non essendo a conoscenza dell’origine. Anche qui si potrebbero fare decine di esempi, da Scende la pioggia di Morandi ad Alta Marea di Venditti, ma passiamo oltre, se vorrete andrete voi a ricercarvi versioni italiane ed originali stranieri!

Bene, ora possiamo volare verso la conclusione con un paio di esempi, forse i più fantasmagorici di questa breve ma intensa disamina di cover. Il primo esempio parte da una canzone dei Beatles, una delle meno universalmente conosciute, tratta dal cosiddetto White Album (1968) ed affidata esclusivamente alla voce ed alla chitarra acustica di Paul McCartney. Si tratta di BLACKBIRD. Piccolo gioiellino acustico, di cui vediamo due successive e diversissime elaborazioni. La prima avviene ad opera dello straordinario cantante Bobby McFerrin, che la inserisce nel suo secondo album, The Voice, del 1984, accreditato come il primo album in cui tutti i brani sono registrati solo usando la voce e senza sovraincisioni. Gustatevi questa cover nella esecuzione live di QUESTO VIDEO. Ecco cosa intendevo per “versione che stravolge l’originale”, in questo caso ottenuta affidandosi solo alla eccezionale performance vocale dell’artista. In un altro caso invece, la semplice canzone diventa materiale per la grande perizia musicale del bassista Jaco Pastorius e della sua big band, in quest’altro esempio: di base la stessa canzone, ma arrangiamento completamente differente.

Ed eccoci all’ultimo viaggio, che parte da una delle più famose canzoni dei Bee Gees, HOW DEEP IS YOUR LOVE, appartenente alla colonna sonora del celebre film La febbre del sabato sera, anzi estratto dall’album come singolo e grande successo della fine del 1977. Rinfrescate l’ascolto dell’originale linkato sopra e poi buttatevi su questa versione live che ne fa Jacob Collier, strepitoso musicista di questi nostri tempi, se non sapete chi sia, informatevi in fretta e troverete un vero e proprio genio. La canzone muta in continuazione, la fervida immaginazione e il dono che questo ragazzo ha gli fa cambiare continuamente strada, trovando via via nuovi accordi, interazione con il pubblico, insomma rendendo il brano completamente un’altra cosa. Eccone una delle tante versioni rintracciabili su YouTube, non serve descrivere oltre, intraprendete il viaggio dell’ascolto (e della visione). Per la cronaca, per l’arrangiamento di un’altra celebre canzone, All Night Long di Lionel Ritchie, Jacob Collier ha vinto un Grammy Award, nel 2020, a 26 anni. Il viaggio che farete con QUESTO VIDEO è davvero incredibile, essendo le varie parti del video (e dell’arrangiamento) registrate in giro per il mondo durante la sua tournée del 2019. 

Concludendo, sempre di How Deep Is Your Love, una cover completamente diversa, in cui una calda voce femminile è accompagnata dalla delicata tessitura di due chitarre acustiche. Eccola qua: una cover “stripped down”, come asciugata, ridotta, come recita la didascalia di molte delle canzoni incluse nel canale YouTube chiamato STORIES, dove potete trovare decine di cover di brani del presente e del passato, registrate rigorosamente dal vivo da un pool di musicisti e cantanti statunitensi intorno al fulcro del progetto, il chitarrista Ryan Lerman. Così, se vorrete, potrete continuare il viaggio da soli! Buona musica!!


 A cura di:

WALTER MUTO, laureato in Lettere e con i più vari studi musicali alle spalle, decide di dedicarsi prima con grande passione e poi come lavoro alla musica, in particolare a quella leggera. La sua occupazione è fare musica, parlarne e scriverne a 360 gradi.  Oltre ad aver scritto diversi libri e curare una rubrica per il mensile Tracce, collabora da 35 anni agli spettacoli musicali per ragazzi della Sala Fontana di Milano, produce spettacoli insieme a Carlo Pastori e negli ultimi anni si dedica a progetti musicali per il sociale,
con una attività al Carcere di San Vittore ed una in due residenze per disabili psichici. 
Più info su www.waltermuto.it  

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