La raccolta e le radici:

tradizione, domande e desideri in due capolavori di 50 anni fa

Harvest di Neil Young e Radici di Francesco Guccini mezzo secolo dopo: perché parlarne ed ascoltarli ancora.

 

Il primo uscito a febbraio, anche se registrato durante tutto l’anno precedente; l’altro registrato nella primavera ed uscito ad ottobre. A mezzo secolo di distanza quei pochi mesi sono un nonnulla, se si pensa che il 1972 abbia contenuto due album così importanti, sia per le carriere dei due artisti in questione che per la storia della canzone folk-rock degli anni a venire, fino ai giorni nostri.

Molte differenze fra i due artisti e i due lavori, ma molti i punti in comune. Ne dettaglio un po’ insieme a qualche spunto per l’approfondimento.

Guccini ha 32 anni quando mette mano alle canzoni per Radici e qualche anno prima ha scelto di fare il cantautore come sua attività principale, dopo una laurea (“son della razza mia, per quanto grande sia, il primo che ha studiato”, ricorderà qualche anno dopo nella celeberrima Avvelenata) ed un doppio inizio lavorativo, prima come giornalista e poi come professore universitario (questa attività per la verità, la porterà avanti fino a metà degli anni ’80 del secolo scorso). Radici è il quarto album come cantautore, e questo lo accomuna ad Harvest, anch’esso quarto lavoro del canadese Neil Young, il quale però, pur essendo di cinque anni più giovane di Guccini, all’epoca ha già una lunga carriera ed alcuni successi alle spalle, sia da solo, che con i Buffalo Springfield, che con il supergruppo formato unendosi a David Crosby, Graham Nash e Stephen Stills, per l’appunto Crosby, Stills, Nash & Young (CSNY). Ma mi fermerei alle premesse se andassi avanti a dettagliare qui, procediamo! Vi cercherete voi altre notizie.

Per non farla troppo lunga e semplificando un po’, potremmo dire che in entrambi i lavori i due artisti seguono due coordinate principali: dal punto di vista musicale, un forte legame con il folk, dal punto di vista dei testi una forte impronta – diciamo – esistenzialista, più interrogativa quella del canadese, più venata di un certo cinismo e di rassegnazione invece per l’italiano. Insomma, in soldoni ci si fanno domande profonde sulla vita, sull’amore, sul tempo che passa.

Sono molte le canzoni che si potrebbero analizzare e descrivere, basti scorrere alcuni dei titoli. L’album di Guccini contiene niente meno che Il vecchio e il bambino, sorta di manifesto ecologista ante litteram, La locomotiva, inno anarchico divenuto poi canto di popolo e finale quasi ossessivo dei concerti del cantautore, Canzone dei dodici mesi, e lo scorrere inesorabile e senza senso del tempo e la splendida e super-malinconica Incontro, l’inaspettata riscoperta, piena di rimpianto, di un’amicizia del passato. Per approfondire un po’ di più – se possibile senza prescindere dall’ascolto delle canzoni - qui sono reperibili altre notizie e tutti i testi.

Passando a Neil Young, a partire dalla title-track Harvest, country swingato e sognante, possiamo poi andare ad Old Man, ispirata dal vecchio fattore del ranch che Young aveva acquistato con i cospicui introiti dell’album precedente e piena di domande sulla possibilità di essere amato davvero. Interessante ed anomala, la sontuosa ed orchestrale A Man Needs A Maid, dedicata all’attrice Carrie Snodgress, che a breve sarebbe diventata sua compagna nella vita; in perfetto stile country è invece il brano di apertura, Out On The Weekend, che tratteggia invece la fine di un amore, probabilmente quello con la moglie Susan che stava arrivando al capolinea. Ah, non dimentichiamo The Needle and The Damage Done (L’ago e il danno che ha fatto), sentita e vibrante condanna della tossicodipendenza, registrata quasi per caso in un concerto live un anno prima dell’uscita e tenuta così com’era nell’album. Ma tutte le canzoni meritano ascolto, come dicono gli anglosassoni, questo, come quello di Guccini, è un album “all killer, no filler”: tutti brani straordinari, nessun riempitivo.

Ma non ho appositamente citato finora le due canzoni a cui personalmente sono più legato, una per album, che qualche anno dopo sono diventate mie fedeli compagne di cammino e che ancora oggi mi capita di far ascoltare o di cantare e suonare, a mio parere due grandissime canzoni. Sto parlando di Heart of Gold (fra l’altro arrivata al numero 1 delle classifiche di vendita in Canada e Stati Uniti) e Canzone della bambina portoghese.

Nella prima lo stile country, il suono dell’armonica e delle chitarre acustiche e le pregevoli seconde voci di James Taylor e Linda Rondstadt si appoggiano su un testo che usa la metafora del cercatore d’oro, l’uomo che ricerca ma che al tempo stesso sente il tempo che passa (“and I’m getting old”). Potremmo dire, parafrasando un po’ liberamente, che la riuscita non basta a soddisfare la voglia di vivere davvero, cioè in modo vero.

Abbiamo visto che il passare del tempo è una costante anche della poetica di Guccini, ma nella canzone che narra della ragazzina di fronte all’oceano c’è qualcosa di più. Dopo una introduzione che narra alcuni aspetti del distratto sentire comune (“tutti chiusi in tante celle / fanno a chi parla più forte/ per non dir che stelle e morte fan paura”), parte il racconto vero e proprio, quello di una comune, quasi banale gita al mare. La compagnia degli amici si dirada e, ad un certo punto, la bambina portoghese rimane sola ed in silenzio, davanti a quello spazio immenso: “e in questo sentiva / qualcosa di grande / che non riusciva a capire, che non poteva intuire / che avrebbe spiegato se avesse capito lei, e l'oceano infinito”. Ma purtroppo ad un certo momento la vertigine è insostenibile, e molla il colpo: il caldo la avvolge e si mette a dormire. Ed il pensiero di Guccini, messo come in una cornice intorno al racconto centrale, torna e chiude la canzone in un cinismo raggelante. Perdonatemi la lunga citazione, ma ne vale la pena: “E poi, e poi, se ti scopri a ricordare / Ti accorgerai che non te ne importa niente/ E capirai che una sera o una stagione / Son come lampi, luci accese e dopo spente / E capirai che la vera ambiguità / È la vita che viviamo, il qualcosa che chiamiamo esser uomini / E poi, e poi, quel vizio che ci ucciderà / Non sarà fumare o bere, ma il qualcosa che ti porti dentro / Cioè vivere”.

Molti altri potrebbero essere gli spunti tratti da questi due album che sono realmente pietre miliari della canzone d’autore. In ordine sparso e a campione, mirabile una delle frasi che mi ha sempre colpito di più, proprio nella title-track Radici: “nessuno ha mai saputo o solamente non ha senso chiedersi / io più mi chiedo e meno ho conosciuto”, l’impossibilità estrema di trovare un senso al vivere. Eppure, nel finale della stessa canzone, un tentativo di risposta: “La casa è come un punto di memoria / le tue radici danno la saggezza / e proprio questa è forse la risposta / e provi un grande senso di dolcezza.” O in Neil Young, nella già citata Old Man troviamo una smisurata richiesta di amore: “Vecchio, dai un'occhiata alla mia vita / Ti somiglio molto / Ho bisogno di qualcuno che mi ami in ogni momento del giorno”. Quello che è certo è che questi due lavori restano ancora oggi, per chi li voglia avvicinare, serbatoi di domande, di belle canzoni e di testi veri e ben lavorati, che possono diventare oggetto di un lavoro e di un approfondimento ulteriore.

Walter Muto 


 A cura di:

WALTER MUTO, laureato in Lettere e con i più vari studi musicali alle spalle, decide di dedicarsi prima con grande passione e poi come lavoro alla musica, in particolare a quella leggera. La sua occupazione è fare musica, parlarne e scriverne a 360 gradi.  Oltre ad aver scritto diversi libri e curare una rubrica per il mensile Tracce, collabora da 35 anni agli spettacoli musicali per ragazzi della Sala Fontana di Milano, produce spettacoli insieme a Carlo Pastori e negli ultimi anni si dedica a progetti musicali per il sociale,
con una attività al Carcere di San Vittore ed una in due residenze per disabili psichici. 
Più info su www.waltermuto.it  

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