Lucio & Lucio: un giorno di differenza e tante grandi canzoni

Abbiamo appena finito di celebrare l’ottantesimo anniversario della nascita dei due grandissimi cantautori italiani. Un breve ricordo ed uno spunto di lavoro attraverso una canzone a testa.

 

Una data è più facile da ricordare, è il titolo di una delle sue canzoni più famose, 4/3/1943, presentata a Sanremo nel 1971 con tanto di look improbabile e coppola in testa. Titolo, peraltro, che alimentò la leggenda che la canzone fosse autobiografica, mentre era uscita dalla penna della scrittrice (poi critica d’arte) Paola Pallottino. Ma sto già divagando. In ogni caso, piuttosto semplice da ricordare è anche il secondo giorno natale, basta aggiungere uno al calendario. Caso singolare quello di due dei più grandi cantautori italiani, nati lo stesso anno e ad un giorno di distanza, il 4 e il 5 marzo del 1943, per l’appunto, e che fra l’altro portano anche lo stesso nome di battesimo. Lucio & Lucio: scherzosamente, ma non troppo, mi permetto di chiamarli (non so se lo ha già detto qualcuno, altrimenti è mia!) i due grandi Luci, anzi, le due grandi luci della canzone italiana.

Non basterebbero dei libri ad illustrare ed approfondire anche solo i successi principali dei due grandi artisti, che hanno solcato con le loro traiettorie diagonali la seconda parte del ‘900 (per Dalla, anche un pezzetto di nuovo millennio). Per gli assoluti neofiti (se ce ne sono fra chi legge), per un primo viaggio ci si potrebbe affidare ad una delle numerose compilation dei migliori pezzi, apparse negli scorsi giorni. Giusto a titolo di esempio, vi linko quelle pubblicate su www.rockit.it , questa dedicata a Lucio Dalla e questa invece con le migliori 10 di Lucio Battisti. Da consultare, certo, ed ascoltare, perché spesso si scoprono anche grandi canzoni sconosciute; ma sempre tenendo presente quello che scrive uno dei due compilatori, e cioè che proprio per liste come queste spesso si finisce a litigare, tanta è la ricchezza e la multiformità dei due giganteschi repertori. Sì, perché la migliore compilation è quella che ognuno fa per se stesso: le canzoni sono legate a persone, situazioni, sentimenti, gioie e dolori, ed il mio percorso è sicuramente diverso da quello di chiunque altro nel mondo. Insomma,  la mia road map la devo, la posso disegnare solo io.

Proprio per questo ho deciso di non fare l’ennesima playlist, ma di tentare l’impossibile impresa di scegliere una sola canzone per autore e parlarvene. Cioè scrivervene. La scelta, che sarebbe impossibile per le stesse ragioni enunciate sopra, è stata facilitata dal fatto che è stata suggerita dalla realtà: delle due canzoni una la propongo appena posso nei miei live, l’altra fa parte di una lezione sulla forma-canzone che ho appena fatto in una scuola bergamasca. Quindi via alle danze.

Mi ritorni in mente è mirabilmente descritta ed analizzata in un testo a mio avviso fondamentale se ci si vuole avvicinare a Lucio Battisti: Gianfranco Salvatore – Mogol-Battisti: l’alchimia del verso cantato, edito da Castelbarco nel 2003 (il libro è abbastanza introvabile, magari usato, ma non credo, eccone una recensione uscita su rockol.it ). Ma prima di qualunque analisi ed osservazione, ascoltate la canzone, interpretata in playback da Battisti durante una trasmissione televisiva, e da lui introdotta in maniera semplice ed efficace, qui su You Tube.

Uscita su 45 giri nell’ottobre 1969, la canzone schizza in cima alle classifiche di vendita nel gennaio 1970. Non solo, ma come lato B del singolo ha niente meno che 7 e 40, altra grandissima canzone che poteva benissimo essere il lato A di un altro 45 giri (che spreco di grandi canzoni, o se preferite, che grande offerta per il pubblico, fregandosene di quello che già allora imponeva il mercato).

La musica: dopo una introduzione orchestrale, probabilmente proposta dallo stesso autore e magistralmente orchestrata, nell’arrangiamento di Detto Mariano, ed alcune battute di attesa affidate alla sola chitarra acustica, parte la melodia che canta immediatamente le parole del titolo. È una dichiarazione di intenti: la canzone è sul ricordo, l’immagine della donna è angelicata (“bella come sei / forse ancor di più”), addirittura esaltata nel ricordarla (“dolce come mai / come non sei tu”) ma l’angelo è “caduto in volo”, evidentemente la storia è finita. La melodia è bellissima, scritta quasi alla maniera di una romanza, ma dopo il “come ti vorrei”, ripetuto due volte per renderlo più drammatico, assistiamo ad un brusco stop, che introduce un cambio di scena, sia testuale che musicale: “ma c’è qualcosa che non scordo” e la risposta è affidata ad una sezione fiati rhythm’n’blues canadese, ascoltata qualche sera prima in un locale a Milano e reclutata per la registrazione della canzone. Questo breve bridge di poche misure si trasforma nuovamente e ci proietta in una sala da ballo, dove, accompagnata da una disco-music ante litteram, si svolge la tragedia: lui e lei ballano insieme, ma ad un certo punto lei gli chiede chi è quell’altro suo amico. La chitarra elettrica di Alberto Radius (recentemente scomparso) sottolinea la drammaticità della scena mediante un bicchiere strisciato sulle corde, e poi… “un sorriso”, e su questa parola un accordo minore che non avevamo ancora sentito, culmine della melodia e sottolineatura del dramma: “e ho visto la mia fine sul tuo viso / il nostro amor dissolversi nel vento / ricordo…”. Ancora una volta quella parola, ricordo, ed ancora una volta tutto si ferma, come in un frame-stop cinematografico: “sono morto in un momento”, e qualche decisa pennata di chitarra acustica e la batteria riprendono il passo e riportano al sublime ritornello iniziale, completato e seguito da “ma c’è qualcosa che non scordo”, e qui l’ennesimo colpo di genio: quello che è successo quella sera te l’ho già raccontato, e di certo non te lo racconterò più. E grazie ad una frase suonata tutti insieme, archi fiati e band, ed un rallentato (a detta dei musicisti coinvolti) molto difficile da suonare insieme, si torna definitivamente alla grande melodia iniziale, affidata però stavolta all’orchestra, con Battisti che urla in coda il dolore più lancinante “ma c’è qualcosa che non scordo…” e “sei un angelo caduto in volo per me…”. Sipario.

Sì, perché più che una canzone è un pezzo di teatro, un’operina potremmo quasi dire, che in poco più di tre minuti crea un mondo variegato, in ugual misura formato da storia raccontata, testo, musica, voce, arrangiamento, melodia e mescolanza di stili diversi perfettamente assortiti.

Per quanto riguarda Lucio Dalla invece, la scelta è caduta su Henna, canzone d’apertura dell’album omonimo, uscito all’inizio di dicembre del 1993 (solo ora mi rendo conto che era trenta anni fa…). Questo è un album che Dalla fece già sapendo che non avrebbe venduto così tanto come altri suoi lavori, ed infatti si fermò a 300.000 copie vendute, contro per esempio il risultato del precedente album in studio, Cambio del 1990, che arrivò a un milione e mezzo di copie. Ma Dalla stesso affermò che Henna era un album che aveva voluto scrivere e produrre essenzialmente per se stesso, per fissare una serie di sentimenti ed emozioni. Album che pure contiene ottime canzoni, come la bellissima Rispondimi, cantata in coppia con la bravissima Tosca (una delle molte scoperte di Dalla, come Ron e Samuele Bersani), e la ironica e profetica Merdman, strampalata vicenda di uno schifoso extraterrestre che atterra sul nostro mondo e pur essendo repellente, viene invitato a tutte le trasmissioni televisive. Una sorta di prefigurazione della tv spazzatura che di lì a poco avrebbe invaso i nostri teleschermi. 

Senza farla troppo lunga, Henna è una delle canzoni che Dalla preferiva, fra le decine di bellissime scritte, e potete sentirlo spiegare direttamente da lui in questo video. Anche qui, come prima per Battisti, vi invito ad ascoltare la canzone prima di leggerne il mio commento. L’originale, come tutto il resto dell’album, è affidato per lo più a tastiere, basso e batteria elettronici e, naturalmente la voce, ecco la versione in cui uscì. Ma potete gustarne anche una splendida esibizione dal vivo, con il grande Beppe D’Onghia al pianoforte ed un ensemble di archi, nella splendida cornice del teatro greco di Tindari, in Sicilia, in quest'altra versione, che segue la presentazione linkata prima.

Anche ad un primo ascolto, ci si rende conto che nemmeno questa è una canzone canonica, in cui sia facile riconoscere con precisione le varie sezioni (strofa, ritornello eccetera). Questo innanzitutto perché, come Dalla spiega nella introduzione al brano, la canzone nasce da un flusso di pensiero, dalla storia immaginata e sperata, e al tempo stesso impossibile, di un soldato che possa dire no ad un ordine che ritiene sbagliato. Su un giro di accordi abbastanza ripetitivo, movimentato dai pieni e vuoti dell’arrangiamento, si snoda una melodia molto articolata , con alcuni richiami qua e là, ma estremamente varia e ricca. Il testo parte da un concetto abbastanza generale di amore, per poi passare al dolore che ci cambia e tornare all’amore, che è l’unica cosa che ci può salvare. Ma questo ritorno, dal generico amore per tutto dell’inizio (“l’amore misterioso anche dei cani / e degli altri fratelli animali / delle piante che sembra che ti sorridono / anche quando ti chini per portarle via”) - che però già nella prima parte ha un affondo estremamente profondo (“l’amore / di chi ci ama e non ci vuol lasciare”) - , arriva poi, come purificato, cambiato dal dolore, ad un tu, una presenza che è la vera chiave dell’affezione.

E la melodia vola verso il suo culmine con una scala ascendente appoggiata sulle parole “ma io ti cercherò” e poi “anche da così lontano ti telefonerò” e la sera brutta fredda buia e stretta si aprirà, perché è solo un amore concreto che potrà salvarci, anche nelle brutte cose che la realtà talvolta ci mette davanti.

Non serve dire molto di più, semmai può servire riascoltarla per provare ad entrare più in profondità, a vedere quali porte una canzone così apre in noi, se la ascoltiamo con attenzione.  

Omaggio anomalo, forse, quello a due dei più grandi autori di canzoni italiane, fatto scegliendo solo una rosa a testa dal loro bouquet. Un tributo che però indica una modalità di lavoro: andare a scoprire la ricchezza di una canzone provando a conoscerla a fondo, a scavare fra le ragioni che l’hanno fatta nascere, guardando ai motivi che l’hanno fatta uscire con quel vestito (leggi arrangiamento) e all’incastro fra melodia, testo ed accompagnamento che, nel caso delle grandi canzoni, diventano inscindibili. Buon lavoro!!

Walter Muto



 A cura di:

WALTER MUTO, laureato in Lettere e con i più vari studi musicali alle spalle, decide di dedicarsi prima con grande passione e poi come lavoro alla musica, in particolare a quella leggera. La sua occupazione è fare musica, parlarne e scriverne a 360 gradi.  Oltre ad aver scritto diversi libri e curare una rubrica per il mensile Tracce, collabora da 35 anni agli spettacoli musicali per ragazzi della Sala Fontana di Milano, produce spettacoli insieme a Carlo Pastori e negli ultimi anni si dedica a progetti musicali per il sociale,
con una attività al Carcere di San Vittore ed una in due residenze per disabili psichici. 
Più info su www.waltermuto.it  

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