NOTTURNO LIBICO

Autore: Raffaele Genah

Romanzo Solferino 2023, p192, 16,50€

“Un vecchio detto paragona gli ebrei ai canarini nelle miniere. Quando non se ne vedono più in giro vuol dire che l’aria si è fatta irrespirabile. In Libia non ci sono né canarini né ebrei.  (…) Un’intera comunità è volata via nel 1967, anche se per qualche tempo ancora sono state segnalate alcune rare presenze”.  I rivoluzionari, “cacciando i vivi e calpestando i morti, hanno eliminato ogni traccia di memoria, distruggendo perfino i cimiteri”. Ma da quando c’erano ebrei, in Libia? Probabilmente dal 70 dopo Cristo, dalla distruzione del secondo tempio. In ogni caso sappiamo che oltre duemila anni fa, in Cirenaica, è esistita una città romana chiamata Yehudia, Giudea.  Poi, nell’età moderna, arrivarono ebrei cacciati dalla Spagna e dal Portogallo.  La convivenza procede tra alterne vicende, ma tutto si fa più vorticoso nell’ultimo secolo. Dopo la parentesi relativamente tranquilla della dominazione ottomana, arriva l’Italia fascista che, nel 42-43, rinchiude in un campo duemila ebrei, uomini, donne, bambini: ne muoiono cinquecentosessanta. Dopo la guerra, l’amministrazione britannica di fatto non contrasta due violenti pogrom, nel 1945 e nel 1948. E proprio dal 45 incomincia una massiccia migrazione verso quello che sarà lo stato di Israele. Sotto il neonato regno di Libia la vita sembra scorrere tranquilla, ma l’illusione si rompe con l’ingresso del paese nella sfera d’influenza dell’Egitto di Nasser: un nuovo pogrom colpisce la comunità ebraica nel 1967, a ridosso della guerra dei sei giorni; poi, il colpo finale, la cancellazione definitiva, con la rivoluzione del colonnello Gheddafi, nel settembre del 1969.

In Notturno libico Raffaele Genah ricostruisce quanto accaduto a partire dal 1967 attraverso la vicenda di Giulio Hassan e di sua moglie Jasmine Mimun. La narrazione, dallo stile rapido ed asciutto, è condotta attraverso il montaggio di tre blocchi di capitoli, affidati, rispettivamente, alla voce di Giulio, a quella della moglie, a quella del narratore esterno che illustra il contesto storico. Dopo una prima fuga verso l’Italia, nel 1967, Giulio ritorna a Tripoli per cercare di salvare il salvabile del patrimonio familiare. E a Tripoli si trova, con tutta la famiglia, nel settembre del 1969, quando Gheddafi prende il potere. Vivono nascosti, cercando il mezzo per tornare in Italia , ma  una notte Giulio viene arrestato. Incomincia un calvario di isolamento e pestaggi, senza che nei suoi confronti venga formalizzata alcuna accusa. C’è solo l’antica colpa di essere ebreo, l’unico ebreo in quel carcere, e quella, fantomatica, di essere un agente israeliano. Da questo momento in   avanti, il racconto di Giulio e quello di Jasmine non possono che essere separati, perché tra i due non ci saranno quasi più contatti, per tutto il tempo della prigionia. Jasmine scopre ben presto in quale orribile pozzo sia caduto il marito: nessuno dei consoli ed ambasciatori cui si rivolge può fare nulla, perché Giulio è cittadino libico e un intervento in suo favore sarebbe indebita intromissione negli affari interni della Libia. L’unica ma importante consolazione per Giulio sarà la notizia che la moglie e i figli sono rientrati in Italia. Da quel momento si sente libero, libero di non farsi schiacciare, di difendere con ogni mezzo la sua dignità, visto che nessun altro che lui stesso pagherà le conseguenze dei suoi atti. La storia degli anni di carcere di Giulio inanella una serie di dialoghi e di incontri straordinari, dalla sorte comune che si trova a condividere con i più alti responsabili del governo del regno di Libia, all’amicizia con un vecchio irriducibile capo berbero, figura scolpita con pochi indimenticabili tratti. E’ la vecchia, sempre nuova storia de Le mie prigioni,  la volontà pervicace di conservare la propria umanità e di non negare, nonostante tutto, quella degli altri, volontà che salva se stessi e, a volte, risveglia anche l’umanità altrui.

 Jasmine, dal canto suo, non lascia nulla di intentato per arrivare alla liberazione del marito: non c’è conoscenza che non interpelli, non c’è porta cui non bussi, pur tra sconfitte e delusioni. Un episodio per tutti, particolarmente significativo perché rimanda all’inestricabile groviglio di violenza, odio e rancore che insanguina anche i nostri giorni. Un avvocato parigino pensa di poter fare qualcosa: è in contatto con un militante dell’Olp a cui deve far avere aiuti per la Palestina, e spera di ottenere in cambio un aggancio a favore di Giulio. Anche quella strada viene tentata, ma un giorno, sollevando il ricevitore del telefono, il militante dell’Olp salta in aria: era tra gli autori dell’eccidio degli atleti israeliani a Monaco, e il Mossad l’ha raggiunto. Un altro esempio dell’incredibile intreccio di vicende pubbliche e private che nella polveriera mediorientale non risparmia nessuno è offerto dal direttore di un giornale libico: arrestato con l’accusa di avere distorto la mentalità del popolo, condivide per qualche tempo il carcere con Giulio, con cui fa amicizia. Liberato, decide di partire per l’Egitto, ma il suo aereo sbaglia rotta e sorvola il Sinai, dove viene abbattuto dalla contraerea israeliana. E che dire dell’ex primo ministro del regno di re Idris, Mahmud Muntasser? Fisicamente e psicologicamente distrutto (giungerà al suicidio), viene aiutato in carcere solo dall’unico detenuto ebreo. Ironia del destino: a suo tempo si era rifiutato di dare aiuto al cognato di Giulio e alla sua famiglia, nel pogrom del 1967. “Mi sono domandato più volte come si sarà sentito. Di certo io non mi sono mai pentito di quello che ho fatto per lui”.

 Giulio viene infine liberato nel dicembre del 1973, dopo più di quattro anni di immotivata prigionia. Dopo una parentesi in Italia, la famiglia si è trasferita in Israele. Raffaele Genah, giornalista Rai, capo della sede Rai per il Medio Oriente, oggi collaboratore del Messaggero e scrittore, è nato a sua volta a Tripoli. Non ha voluto che sulla sorte degli ebrei di Libia calasse definitivamente l’oblio. I protagonisti di quelle vicende lo hanno aiutato, accettando di riportare a galla i ricordi di un passato doloroso. A noi rimane una storia ordinariamente del tutto ignorata. E dopo la lettura la nostra idea della Libia, della costa africana del Mediterraneo, della stessa Italia, è un po’ meno piatta. Il tempo, volonterosamente aiutato dalla cattiva coscienza degli uomini, leviga, appiattisce, raddrizza le linee frammentate, elimina i chiaroscuri, fa un pezzo di tela uniforme di quello che era un tappeto persiano. Così anche i torti e le ragioni si sciolgono, non più sfumati e intrecciati si induriscono in neri blocchi contrapposti. Questa vicenda ci mostra che, a guardare un po’ più da vicino, ci siamo dentro tutti, abbiamo tutti portato acqua al mulino della distruzione. Nessuno può scagliare la prima pietra. Ci mostra però anche che la distruzione dell’umano in noi non è inevitabile, e la sua salvezza è forse più probabile là dove non ci schieriamo, ma manteniamo la capacità di ascoltare la nostra anima e di tenere, in primo luogo, a restare amici della nostra anima, come disse splendidamente Hanna Arendt.   “Di certo io non mi sono mai pentito di quello che ho fatto per lui”. 

 


 

A cura di:

Giuliana Zanello è nata a Milano nel 1957. Si è laureata all’Università Cattolica del Sacro Cuore e ha insegnato al liceo classico di Busto Arsizio. Collabora occasionalmente con IlSussidiario.net

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